Comunisti
Anarchici e Libertari in CGIL n. 42 Ottobre
2017
Il modello
universalistico della sanità
Ci sono voluti 30 anni affinché l’Articolo
32 della Costituzione (La Repubblica
tutela la salute come fondamentale diritto
dell'individuo e interesse della
collettività,
e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un
determinato trattamento sanitario se non
per disposizione
di legge.) diventasse
legge.
Detto per inciso, poiché tale
problematica esula dalle tematiche che vogliamo
qui trattare, a tutti coloro che oggi continuano
a cianciare sull’applicazione della
“ nostra” e
più “bella” Costituzione
del mondo, occorre ricordare che non solo
ci sono voluti 30 anni perché un principio
si affermasse, ma ciò che realmente
lo determinò furono
i modificati rapporti di forza fra le classi,
tant’è che
subito dopo l’approvazione della Legge
iniziò il progetto del suo scardinamento
per
arrivare, come sinteticamente
descriviamo con le successive note, alla
situazione odierna di attacco feroce e forse
definitivo alla concezione della universalità
dei
trattamenti sanitari e del welfare pubblico.
Soltanto nel 1978 attraverso
l’emanazione della legge 833 che istituiva
il Sistema Sanitario Nazionale (SSN) anche
la salute del singolo è diventata
questione
sociale e non più individuale
ispirata per altro ad un modello universalistico.
Infatti prima del 1978 il
sistema sanitario italiano era basato su
una forma di protezione assicurativo-previdenziale
in cui il diritto alla tutela della salute
era
strettamente collegato
alla condizione lavorativa e quindi non era
considerato un diritto nel senso pieno del
termine.
Le cosiddette Casse Mutue,
gli enti assicurativi che garantivano l’accesso
alle cure, affondavano le loro radici nelle
prime società operaie dell’ottocento.
In quella fase storica caratterizzata,
da una generale assenza di protezioni sociali,
chi poteva permetterselo pagava per avere
un’assistenza adeguata, ed alle
classi
meno abbienti non restava altro che affidarsi
alle Opere Pie e alla beneficenza borghese.
I lavoratori iniziarono
così ad associarsi e a mettere in
comune risorse per assicurarsi dai rischi
dell’esistenza (disoccupazione, malattia,
infortunio, vecchiaia,
ecc.) generando un
esteso e capillare tessuto di società mutualistiche:
un vero e proprio welfare dal basso.
Nella prima metà del
novecento, queste Società di Mutuo
Soccorso pur perdendo la loro centralità all’interno
del movimento operaio, cedendo il passo alle
emergenti organizzazioni
di massa sindacali e politiche, riuscirono
comunque a sopravvivere.
Fu il fascismo a dare un
deciso colpo di grazia al mutualismo operaio,
riportando le associazioni sotto il rigido
controllo dello stato e del regime.
L’idea era non solo
quella di irreggimentare le mutue esistenti,
ma di farle confluire all’interno di
alcuni macro-enti.
L’ultimo tentativo
di portare a termine questo compito avvenne
nel 1943, proprio poco prima del crollo della
dittatura, quando si cercò di accorpare
il fitto
reticolo di casse, istituti
ed enti di assicurazione sanitaria nell’Ente
Mutualità Fascista – Istituto
per l’Assistenza di Malattia ai Lavoratori.
Da prodotto delle classi
subalterne, gli enti mutualistici divennero
così la spina dorsale di un nascente
welfare burocratico e corporativo-assicurativo
che,
anziché promuovere l’estensione
dei diritti sociali, cristallizzava le disuguaglianze
fornendo a ciascuno una protezione commisurata
ai contributi versati e alla
posizione ricoperta
nel mercato del lavoro.
La
sanità così impostata prevedeva
dunque, non solo una copertura parziale della
popolazione (lavoratori e familiari a carico),
ma anche forti sperequazioni
tra i beneficiari
in quanto le quote contributive versate alle
assicurazione variavano in base al tipo di
lavoro svolto ed in questo modo si aveva
accesso a diversi
livelli qualitativi di
assistenza.
Uno dei paradossi che si
veniva a creare era, per esempio, che i soggetti
più vulnerabili e maggiormente esposti
a malattie e rischi sociali, come disoccupati
e
lavoratori a basso reddito
(ed i loro familiari), avevano possibilità ridotte di accedere
a cure ed assistenza adeguate.
Il 23 dicembre 1978 venne
approvata la L. 833/78 che istituiva il Servizio
Sanitario Nazionale basato sulla visione
solidaristica nell’erogazione delle
prestazioni
in cui la copertura sanitaria
veniva estesa a tutti e non più limitata
a talune categorie (lavoratori, pensionati,
loro familiari e soggetti particolarmente
bisognosi privi
di tutela assicurativa
obbligatoria).
In questa nuova impostazione
il finanziamento del sistema era basato sulla
fiscalità generale, anche se a soli
tre mesi dalla sua emanazione, tuttavia,
vennero
introdotti i “ticket” sui
farmaci e sulle prestazioni sanitarie, una
vera e propria “tassa sulla malattia” che,
prevedendo una forma di compartecipazione
diretta
dei cittadini alla spesa sanitaria,
incrinava il principio della gratuità dell’accesso
al sistema..
Nel 1992, durante il governo Amato, venne
partorito il D.L. 502/92, il cui “ ispiratore”, Francesco
De Lorenzo, sarebbe stato di lì a
poco coinvolto, proprio
nell’inchiesta
di Mani Pulite.
Questo provvedimento, poi
leggermente modificato dal D.L. 517/93 varato
dal governo Ciampi, iniziava a sfaldare l’omogeneità delle
prestazioni sul territorio
nazionale inserendo
un cuneo nell’universalità del
servizio.
Pur identificando dei “livelli
uniformi di assistenza” su base
nazionale, venivano devoluti grandi poteri
alle Regioni che diventano economicamente
e, in parte,
politicamente responsabili
dei propri sistemi sanitari.
Inoltre le USL diventavano
ASL, vere e proprie aziende pubbliche dotate
di autonomia imprenditoriale e gestite da “manager
della salute” secondo criteri
di
efficienza economica e “produttività”,.
Il tutto giustificato
con la retorica che vuole il privato come
intrinsecamente più efficace ed efficiente
del pubblico e soprattutto con Direttori
Generali aventi poteri
e status di manager
aziendali, ma in realtà nominati dalle
Regioni stesse, dando vita ad una nuova e
perversa commistione tra sistema politico
ed interessi privati
favorendo oltremodo
pratiche di clientelismo e corruzione .
Parallelamente a questa vera e propria riorganizzazione
in senso aziendalistico della sanità pubblica,
si spalancavano le porte alle strutture sanitarie
private, di fatto
equiparate a quelle pubbliche,
attraverso il meccanismo dell’accreditamento
che le rendeva a tutti gli effetti un pilastro
del SSN e non più semplicemente accessorie
e supplementari.
Veniva delineata, esattamente
come accadeva con il sistema delle mutue,
una tendenziale separazione tra i soggetti
committenti e paganti da un lato (le ASL)
e le
strutture erogatrici delle
prestazioni sanitarie dall’altro (le Aziende Ospedaliere).
In questo modo le ASL hanno
potuto iniziare a rimborsare parimenti prestazioni
sanitarie “acquistate” dagli
utenti presso Aziende Ospedaliere pubbliche
o da
soggetti privati accreditati,
alimentando così la concorrenza e la competizione
tra i due poli.
Nel 1999 arrivò la
cosiddetta “riforma Bindi” che
pur nel tentativo di correggere alcune criticità dei
precedenti provvedimenti, definendo in modo
più preciso per
esempio i Livelli
Essenziali di Assistenza (LEA) da garantire
a tutti i cittadini, confermava l’impostazione
fondamentalmente privatistica dell’ordinamento
sanitario.
Dopo circa sei mesi, venne
approvata la Legge 13 maggio 1999 n. 133
che determinava la soppressione nell’arco
di tre anni del Fondo sanitario nazionale,
lasciando
alle Regioni il compito
di finanziare direttamente il proprio Servizio
Sanitario.
Nel 2001 mutò invece
il quadro costituzionale: la riforma del
titolo V della Costituzione ridefinì i
rapporti tra Stato e Regioni in senso federalistico
e, attribuendo nuovi
poteri e autonomia a
queste ultime, approfondì ulteriormente
la frammentazione e la disomogeneità dei
servizi erogati nei diversi territori.
La sanità è stato
il primo e più importante ambito di
sperimentazione del presunto federalismo
i cui risultati deleteri sono tutt’oggi
evidenti agli occhi di tutti.
Questo più o meno
il quadro complessivo in cui si inseriscono
le politiche sanitarie di oggi.
Da qui dobbiamo
ripartire se vogliamo opporci alla privatizzazione
del sistema sanitario e procedere invece
verso una sua riappropriazione sociale.
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WELFARE AZIENDALE
Welfare state: trasformazioni
e modifiche in atto
Lo stato sociale (Welfare
State, letteralmente Stato del Benessere)
non esiste più da tempo, anche se
il riconoscimento dell’universalità dei
diritti in Italia è stato più
un
obiettivo, una rivendicazione che una realtà consolidata.
Basti pensare all'attuale
cronica assenza di asili nido e di scuole
dell' infanzia in larga parte d'Italia ,
alla dispersione scolastica, che coinvolge
750000 ragazzi cioè circa
un ragazzo
su 5, con 5 punti percentuali sopra la media
europea, alla drammatica situazione della
popolazione anziana che non solo non ha strutture
di ricovero né una
adeguata assistenza
domiciliare, per non parlare della prevenzione
sanitaria che è stata più oggetto
di convegni che prassi concreta.
Quello che è stato
costruito in anni di conflitto sociale anziché consolidarsi
ed estendersi è stato progressivamente
sostituito.
Non a caso si passa dalla
definizione di Welfare State a quella
di Welfare Society, cioè ad un welfare
che prevede l'azione congiunta del pubblico
e del
privato con l’apporto
del volontariato, dei lavori socialmente
utili così come dei cosiddetti percorsi
formativi di cittadinanza attiva, ambiti
questi ultimi
che dietro la maschera
del solidarismo che li dovrebbe caratterizzare,
sempre più spesso divengono strumenti
di dumping contrattuale.
Un processo che
grazie al sempre meno efficiente welfare
pubblico e alla necessità di allocazione
di capitali sviluppa un vero e proprio welfare
privato
(WP) che poggia la sua
penetrazione sulla mercificazione di tutte
le componenti della vita dei cittadini.
Il welfare si intreccia
con la quotidianità delle persone
per tutto l'arco della vita e ne determina
pesantemente la qualità, ma nonostante
la pervasività che dovrebbe
caratterizzare
il sistema di assistenza sociale non è previsto
alcun meccanismo di partecipazione e/o controllo
da parte dei cittadini nei vari istituti
preposti alla erogazione
dei servizi. Infatti il
modello che caratterizza sia il welfare pubblico
che quello privato è un sistema gestionale
di tipo manageriale, dove i cittadini sono
trasformati in
clienti e le aziende sanitarie,
gli ospedali, le residenze per gli anziani,
le case famiglia, le scuole materne, gli
asili nido ect.. si basano esclusivamente
su indici economici
e non sulla rispondenza
ai bisogni dei cittadini nei percorsi di
prevenzione, né ai bisogni dei malati,
degli anziani, degli infanti e dei soggetti
svantaggiati.
Il governo manageriale
esclude qualsiasi tipo di controllo o partecipazione
dal basso alle scelte operative le quali
vengono calate dall’alto attraverso
delibere attuative.
L'aziendalizzazione di
importanti settori del welfare, dalla sanità alla
istruzione non solo non ha risolto i problemi
di efficientazione e di spreco, ma ha aperto
un varco
culturale al passaggio
dal welfare pubblico direttamente verso l'erogazione
di servizi da aziende private.
Si osservi a tal proposito
l'esplosione di scuole e università private,
o alla costante diffusione di strutture mediche-diagnostiche
associate, di cui una punta di diamante
è rappresentato
dalle cliniche dentali.
In particolare nell'ambito
sanitario privato in questi anni si registra
una capacità di offerta di alta qualità che
va ben oltre l'aspetto alberghiero che caratterizzava
queste
strutture nei decenni passati
e che in alcuni casi è concorrenziale con
il sistema dei ticket della sanità pubblica.
La capacità di investimenti è direttamente
proporzionale allo sviluppo di polizze assicurative
sanitarie, ma soprattutto all'estensione
della sanità integrativa nei contratti
collettivi di lavoro. In
questa fase i profitti dei privati escludono
una loro presenza significativa nei percorsi
terapeutici più complessi
e costosi che restano a carico del
pubblico. L'estensione
di settori privati è anche avvantaggiata
da una struttura contrattuale differenziata
tra pubblico e privato con differenze salariali
e normative
consistenti che si accentuano
ancor di più con l'appalto di molti
servizi alle cooperative sociali e sempre
di più a quello che viene definito
il privato sociale, ovvero al
mondo del volontariato
che poco mantiene dello spirito dell'associazionismo
e sempre di più dietro questo paravento
nasconde un nuovo sistema di sfruttamento.
In comune il welfare pubblico
e l'intervento privato nelle sue varie sfaccettature
hanno in comune l’uso massiccio di
forza lavoro precaria.
Qui, come d'altronde in
molti altri settori di lavoro, si pone con
urgenza l'obiettivo, evocato oramai da decenni,
di affermare una delle richieste storiche
del movimento
operaio: stesso lavoro,
stessi diritti, stesso salario.
Welfare
aziendale
Il welfare aziendale, come
abbiamo sopra delineato, favorisce ed aumenta
l’espansione del privato a danno del
pubblico, producendo così una
divisione tra categorie
di lavoratori che
hanno la copertura di alcuni servizi con
il welfare aziendale definito contrattualmente
e categorie che non ce l'hanno e sono costretti
ad accedere al
pubblico quali clienti di
servizi impoveriti.
Il WA non va visto solo
come componente paternalista -quindi unilaterale-
dell’azienda, ma come stabile componente
contrattuale indispensabile al progetto
capitalista. Occorre infatti
la firma del sindacato per dare validità ai
contratti stipulati, così come per
recedere prima della scadenza degli stessi.
Si tratta quindi
di una componente legata
alla condivisione del progetto dell’impresa
all’interno della quale il lavoratore è inserito.
Sul piano contrattuale
il WA evidenzia la centralità della
contrattazione che si svolge in azienda,
cancellando o riducendo il Contratto Collettivo
Nazionale di
Lavoro (CCNL) a pura cornice
e a una pletora di osservatori e bilateralità settoriali.
L’impresa dà vita,
per necessità, per funzionare, ad
un sistema condiviso e collaborativo che
vede l’attiva partecipazione dei lavoratori
al raggiungimento degli
obbiettivi fissati
dall’azienda.
Sui 24mila accordi la composizione
del WA presenta: sanità integrativa,
previdenza integrativa, assistenza a famigliari
e anziani, assistenza all’infanzia,
mutui,
assicurazioni varie ecc..
Il salario si ottiene quindi solo in azienda:
con premi tassati al 10%, oppure con un WA
detassato e decontribuito, ma è l’azienda
che
risulta la maggiore azionista
del guadagno sotto il profilo finanziario.
Altro che redistribuzione
del reddito.
Inoltre lo sviluppo geometrico
di accordi sindacali inerenti il Welfare
Aziendale, con i benefici estesi anche ai
famigliari, contribuisce alla creazione di
una
mentalità lontana dalla solidarietà di
classe, favorendo la crescita e lo sviluppo
di una sempre maggiore competitività tra
gli stessi lavoratori.
In assenza di una reale
autonomia del sindacato e di una sua visione
complessiva, questo passaggio contrattuale
sul terreno aziendale/corporativo, nella
cornice della bilateralità, modifica
geneticamente il sindacato stesso, realizzando
quello che -in tempi non sospetti- abbiamo
definito “sindacato di mercato”.
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Automazione, digitalizzazione.
Industria 4.0
La “rivoluzione” nell'organizzazione
del capitale lascia immutata
la
condizione di sfruttati delle lavoratrici
e dei lavoratori.
La sostituzione del lavoro umano attraverso
l'utilizzo delle macchine è un
processo storico che risale alla notte
dei tempi.
Dopo l'utilizzo di animali addomesticati
per il trasporto o il semplice spostamento
di pesi la più grande rivoluzione
tecnologica della storia dell'umanità è
sicuramente
la ruota, strumento che trova infinite applicazioni
anche nella modernità.
Così la definiva Diderot nel XVIII
secolo, sei millenni dopo la sua comparsa: "La
ruota è una delle principali potenze
impiegate nella meccanica e viene
utilizzata
nella maggior parte delle macchine; in effetti
le principali macchine di cui noi ci serviamo,
come l'orologio, i mulini, ecc. non sono
altro
che dei sistemi di ruote".
Da allora ad oggi questo processo non si è mai
interrotto, a volte si è sviluppato
lentamente, a volte il suo sviluppo è stato
tumultuoso.
Questo utilizzo di macchine ed utensili
ha consentito all'uomo di alleviare in parte
i lavori più pesanti nell'agricoltura
, nel lavoro artigianale e nella modernità nella
grande industria. Di per se lo sviluppo
del macchinismo e oggi della informatizzazione
(microelettronica, digitalizzazione) rappresentano
un indubbio progresso
nelle condizioni del
lavoro. Certo, ma non è lo scopo di
questo scritto, l'evoluzione dello sviluppo
tecnologico non è neutrale rispetto
ai rapporti sociali, e
pensiamo che una società basata
sulla valorizzazione dei beni comuni e non
sul profitto non avrebbe necessariamente
sviluppato la stessa tecnologia capitalista.
Il discrimine non è, come usualmente
si pensa, legato a chi e a come si usa la
tecnologia, quanto piuttosto chi la produce
per chi e per cosa e in quale contesto
di
elaborazione, progettazione e rapporti sociali è inserito.
Il dibattito sulla rivoluzione informatica,
che oggi si identifica nel concetto di Industria
4.0, paventa scenari catastrofici che spesso
nella divulgazione popolare
assumono connotati
fantascientifici con robot che alla stregua
di alieni conquistatori gestiscono le nostre
vite, ma senza inoltrarsi su questo terreno
che ci
porterebbe lontano dagli scopi di
questo articolo, preferiamo soffermarci sulle
previsioni altrettante preoccupate relative
alla tenuta dei livelli occupazionali.
Al riguardo ci limitiamo a sottolineare
come tali scenari fossero già ampiamente
presenti in periodi precedenti allo stesso
sviluppo capitalistico, Aristotele nella
Politica dice: “Se
ogni utensile potesse eseguire in base a
un ordine, o da se stesso, il compito che
gli è proprio, l'architetto non avrebbe
più bisogno
di operai, né il
padrone di schiavi”, e che periodicamente
dal dottor Ludd ai “sabots” degli
artigiani di Leida si è riproposto
con enfasi e dotte
argomentazioni ed analisi
ogni qualvolta i sistemi produttivi hanno
visto l'introduzione di nuove tecnologie:
il vapore, l'energia elettrica, l'automobile,
le
comunicazioni radio televisive, l'energia
elettrica e a partire dagli anni 70-80 del
secolo scorso la microelettronica e la successiva
evoluzione dell'informatica
e della digitalizzazione
e robotica che rappresenta il “core” di
Industria 4.0.
L'osservazione empirica di queste “rivoluzioni” ha
mostrato da un lato che la presunta pervasività e
rapidità del processo è stato
molto più lento di quello
prefigurato
permanendo non solo nei paesi arretrati ma
anche nell'occidente industrializzato sacche
consistenti di modelli produttivi e organizzativi
tecnologicamente non evoluti. Fenomeno
questo legato ai diversi stadi di sviluppo
del capitalismo nelle diverse aree geografiche
e alla possibilità del
capitale
di usufruire di mano d'opera a basso
costo che rendeva e in parte è storia
dell'Italia di questi ultimi decenni, non
economicamente vantaggioso l'introduzione
di nuovi e costosi processi produttivi.
In altri termini l'introduzione di nuova
tecnologia non avanza fintanto che il capitale
ha spazi di manovra sull'estensione del plusvalore
assoluto con la
contrazione dei salari, l'aumento
dei ritmi, l'aumento della giornata lavorativa.
Alla distruzione di interi settori di forza
lavoro si accompagna, però, una successiva
creazione di forza lavoro legata alle nuove
aree di produzione e alle
diverse competenze
necessarie allo sviluppo delle nuove tecnologie,
ai nuovi beni di consumo, ai nuovi bisogni
materiali e immateriali.
Quello che appare evidente dunque è da
un lato l'aumento della produttività e
dall'altro la distruzione e in parte la creazione
di nuova forza lavoro,
accompagnato da una
progressiva deprofessionalizzazione del lavoro
con il trasferimento alla “macchina” (computer..)
di lavoro intellettuale.
In questa nuova organizzazione del lavoro
si assiste ad una polarizzazione professionale,
occorrono poche figure di altissima specializzazione,
la riduzione
drastica di figure intermedie
che sopravvivono più per necessità di
controllo gerarchico che per effettiva necessità tecnica,
e l'ampliamento di figure di bassa
specializzazione
che abbiano però un livello di istruzione
media per poter essere usati in maniera flessibile.
Lo sviluppo dei processi di digitalizzazione,
nella condizione data del mercato capitalista,
così come è stato in passato
con l'aumento della produttività
attraverso
l'aumento della composizione organica del
capitale (aumento del capitale fisso – strumenti
di lavoro – e diminuzione del capitale
variabile -lavoro-,
ovvero agendo sulla componente
del plusvalore relativo), è oggi una
priorità del sistema produttivo italiano
(industriale e dei servizi) per non essere
tagliati
fuori dalla competizione internazionale
e dalla colonizzazione di capitali stranieri,
siano essi tedeschi, francesi o cinesi.
Questo dato che all'attualità difficilmente è controvertibile
pone al movimento dei lavoratori alcuni problemi.
Le prospettive che si aprono non sono molte:
subire completamente questo processo o provare
ad acquisire alcuni benefici capitalizzando
forza e
determinazione. Le posizioni catastrofiste
su Industria 4.0 in particolare riguardo
la tenuta dei livelli occupazionali non sono
esenti da posizioni strumentali
che tendono
a premere sugli attuali occupati per cancellare
ogni pur minima richiesta di miglioramenti
economici e sulle nuove leve del lavoro per
fargli
accettare lavori privi di tutele.
Se è vero, come è vero che
Industria 4.0 significa aumento della produttività non
si può tollerare che la maggiore massa
dei profitti vada esclusivamente al
capitale, è necessario
pertanto impostare una campagna di rivendicazioni
che ponga al centro la redistribuzione della
ricchezza, con aumenti salariali
significativi
e la contemporanea diminuzione degli orari
di lavoro contrattuali e di fatto.
Azione che ha il duplice scopo di tutelare
chi sarà coinvolto nei processi di
ristrutturazione con la ripartizione del
lavoro a fronte delle espulsioni – lavorare
meno,lavorare tutti- e mantenere la forza “operaia” sia
contrattuale che “politica” per
garantire alle future generazioni di lavoratori
condizioni lavorative tutelate.
Questi obiettivi rappresentano un tentativo
minimo di contrapposizione e tenuta delle
lavoratrici e dei lavoratori in considerazione
che la distruzione e la
creazione di forza
lavoro non sono contemporanee, nel mezzo
a questo sfasamento temporale c'è la
vita quotidiana di milioni di persone che
continuano
a pagare affitti e mutui, che
hanno bisogno di mantenere una propria dignità e
che non possono aspettare le briciole del
capitale e la carità dello stato.
E' necessario agire!
Più salari,
più diritti, meno orario di lavoro
per tutelare l'oggi e costruire il futuro.
DIFESA SINDACALE
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