Difesa sindacale

 

 

 

 

 

 

 

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Difesa Sindacale

LA COMPONENTE ANARCHICA NELLA
CONFEDERAZIONE GENERALE ITALIANA
DEL LAVORO (1944 - 1960)

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Comunisti Anarchici e Libertari in CGIL n. 42 Ottobre 2017

Il modello universalistico della sanità


Ci sono voluti 30 anni affinché l’Articolo 32 della Costituzione (La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della

collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione

di legge.) diventasse legge.

Detto per inciso, poiché tale problematica esula dalle tematiche che vogliamo qui trattare, a tutti coloro che oggi continuano a cianciare sull’applicazione della

“ nostra” e più “bella” Costituzione del mondo, occorre ricordare che non solo ci sono voluti 30 anni perché un principio si affermasse, ma ciò che realmente

lo determinò furono i modificati rapporti di forza fra le classi, tant’è che subito dopo l’approvazione della Legge iniziò il progetto del suo scardinamento per

arrivare, come sinteticamente descriviamo con le successive note, alla situazione odierna di attacco feroce e forse definitivo alla concezione della universalità

dei trattamenti sanitari e del welfare pubblico.

Soltanto nel 1978 attraverso l’emanazione della legge 833 che istituiva il Sistema Sanitario Nazionale (SSN) anche la salute del singolo è diventata questione

sociale e non più individuale ispirata per altro ad un modello universalistico.

Infatti prima del 1978 il sistema sanitario italiano era basato su una forma di protezione assicurativo-previdenziale in cui il diritto alla tutela della salute era

strettamente collegato alla condizione lavorativa e quindi non era considerato un diritto nel senso pieno del termine.

Le cosiddette Casse Mutue, gli enti assicurativi che garantivano l’accesso alle cure, affondavano le loro radici nelle prime società operaie dell’ottocento.

In quella fase storica caratterizzata, da una generale assenza di protezioni sociali, chi poteva permetterselo pagava per avere un’assistenza adeguata, ed alle

classi meno abbienti non restava altro che affidarsi alle Opere Pie e alla beneficenza borghese.

I lavoratori iniziarono così ad associarsi e a mettere in comune risorse per assicurarsi dai rischi dell’esistenza (disoccupazione, malattia, infortunio, vecchiaia,

ecc.) generando un esteso e capillare tessuto di società mutualistiche: un vero e proprio welfare dal basso.

Nella prima metà del novecento, queste Società di Mutuo Soccorso pur perdendo la loro centralità all’interno del movimento operaio, cedendo il passo alle

emergenti organizzazioni di massa sindacali e politiche, riuscirono comunque a sopravvivere.

Fu il fascismo a dare un deciso colpo di grazia al mutualismo operaio, riportando le associazioni sotto il rigido controllo dello stato e del regime.

L’idea era non solo quella di irreggimentare le mutue esistenti, ma di farle confluire all’interno di alcuni macro-enti.

L’ultimo tentativo di portare a termine questo compito avvenne nel 1943, proprio poco prima del crollo della dittatura, quando si cercò di accorpare il fitto

reticolo di casse, istituti ed enti di assicurazione sanitaria nell’Ente Mutualità Fascista – Istituto per l’Assistenza di Malattia ai Lavoratori.

Da prodotto delle classi subalterne, gli enti mutualistici divennero così la spina dorsale di un nascente welfare burocratico e corporativo-assicurativo che,

anziché promuovere l’estensione dei diritti sociali, cristallizzava le disuguaglianze fornendo a ciascuno una protezione commisurata ai contributi versati e alla

posizione ricoperta nel mercato del lavoro.

La sanità così impostata prevedeva dunque, non solo una copertura parziale della popolazione (lavoratori e familiari a carico), ma anche forti sperequazioni

tra i beneficiari in quanto le quote contributive versate alle assicurazione variavano in base al tipo di lavoro svolto ed in questo modo si aveva accesso a diversi

livelli qualitativi di assistenza.

Uno dei paradossi che si veniva a creare era, per esempio, che i soggetti più vulnerabili e maggiormente esposti a malattie e rischi sociali, come disoccupati e

lavoratori a basso reddito (ed i loro familiari), avevano possibilità ridotte di accedere a cure ed assistenza adeguate.

Il 23 dicembre 1978 venne approvata la L. 833/78 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale basato sulla visione solidaristica nell’erogazione delle prestazioni

in cui la copertura sanitaria veniva estesa a tutti e non più limitata a talune categorie (lavoratori, pensionati, loro familiari e soggetti particolarmente bisognosi privi

di tutela assicurativa obbligatoria).

In questa nuova impostazione il finanziamento del sistema era basato sulla fiscalità generale, anche se a soli tre mesi dalla sua emanazione, tuttavia, vennero

introdotti i “ticket” sui farmaci e sulle prestazioni sanitarie, una vera e propria “tassa sulla malattia” che, prevedendo una forma di compartecipazione diretta

dei cittadini alla spesa sanitaria, incrinava il principio della gratuità dell’accesso al sistema..

Nel 1992, durante il governo Amato, venne partorito il D.L. 502/92, il cui “ ispiratore”, Francesco De Lorenzo, sarebbe stato di lì a poco coinvolto, proprio

nell’inchiesta di Mani Pulite.

Questo provvedimento, poi leggermente modificato dal D.L. 517/93 varato dal governo Ciampi, iniziava a sfaldare l’omogeneità delle prestazioni sul territorio

nazionale inserendo un cuneo nell’universalità del servizio.

Pur identificando dei “livelli uniformi di assistenza” su base nazionale, venivano devoluti grandi poteri alle Regioni che diventano economicamente e, in parte,

politicamente responsabili dei propri sistemi sanitari.

Inoltre le USL diventavano ASL, vere e proprie aziende pubbliche dotate di autonomia imprenditoriale e gestite da “manager della salute” secondo criteri di

efficienza economica e “produttività”,.

Il tutto giustificato con la retorica che vuole il privato come intrinsecamente più efficace ed efficiente del pubblico e soprattutto con Direttori Generali aventi poteri

e status di manager aziendali, ma in realtà nominati dalle Regioni stesse, dando vita ad una nuova e perversa commistione tra sistema politico ed interessi privati

favorendo oltremodo pratiche di clientelismo e corruzione .

Parallelamente a questa vera e propria riorganizzazione in senso aziendalistico della sanità pubblica, si spalancavano le porte alle strutture sanitarie private, di fatto

equiparate a quelle pubbliche, attraverso il meccanismo dell’accreditamento che le rendeva a tutti gli effetti un pilastro del SSN e non più semplicemente accessorie

e supplementari.

Veniva delineata, esattamente come accadeva con il sistema delle mutue, una tendenziale separazione tra i soggetti committenti e paganti da un lato (le ASL) e le

strutture erogatrici delle prestazioni sanitarie dall’altro (le Aziende Ospedaliere).

In questo modo le ASL hanno potuto iniziare a rimborsare parimenti prestazioni sanitarie “acquistate” dagli utenti presso Aziende Ospedaliere pubbliche o da

soggetti privati accreditati, alimentando così la concorrenza e la competizione tra i due poli.

Nel 1999 arrivò la cosiddetta “riforma Bindi” che pur nel tentativo di correggere alcune criticità dei precedenti provvedimenti, definendo in modo più preciso per

esempio i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) da garantire a tutti i cittadini, confermava l’impostazione fondamentalmente privatistica dell’ordinamento sanitario.

Dopo circa sei mesi, venne approvata la Legge 13 maggio 1999 n. 133 che determinava la soppressione nell’arco di tre anni del Fondo sanitario nazionale, lasciando

alle Regioni il compito di finanziare direttamente il proprio Servizio Sanitario.

Nel 2001 mutò invece il quadro costituzionale: la riforma del titolo V della Costituzione ridefinì i rapporti tra Stato e Regioni in senso federalistico e, attribuendo nuovi

poteri e autonomia a queste ultime, approfondì ulteriormente la frammentazione e la disomogeneità dei servizi erogati nei diversi territori.

La sanità è stato il primo e più importante ambito di sperimentazione del presunto federalismo i cui risultati deleteri sono tutt’oggi evidenti agli occhi di tutti.

Questo più o meno il quadro complessivo in cui si inseriscono le politiche sanitarie di oggi.

Da qui dobbiamo ripartire se vogliamo opporci alla privatizzazione del sistema sanitario e procedere invece verso una sua riappropriazione sociale.

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WELFARE AZIENDALE


Welfare state: trasformazioni e modifiche in atto

Lo stato sociale (Welfare State, letteralmente Stato del Benessere) non esiste più da tempo, anche se il riconoscimento dell’universalità dei diritti in Italia è stato più

un obiettivo, una rivendicazione che una realtà consolidata.

Basti pensare all'attuale cronica assenza di asili nido e di scuole dell' infanzia in larga parte d'Italia , alla dispersione scolastica, che coinvolge 750000 ragazzi cioè circa

un ragazzo su 5, con 5 punti percentuali sopra la media europea, alla drammatica situazione della popolazione anziana che non solo non ha strutture di ricovero né una

adeguata assistenza domiciliare, per non parlare della prevenzione sanitaria che è stata più oggetto di convegni che prassi concreta.

Quello che è stato costruito in anni di conflitto sociale anziché consolidarsi ed estendersi è stato progressivamente sostituito.

Non a caso si passa dalla definizione di Welfare State a quella di Welfare Society, cioè ad un welfare che prevede l'azione congiunta del pubblico e del

privato con l’apporto del volontariato, dei lavori socialmente utili così come dei cosiddetti percorsi formativi di cittadinanza attiva, ambiti questi ultimi

che dietro la maschera del solidarismo che li dovrebbe caratterizzare, sempre più spesso divengono strumenti di dumping contrattuale.

Un processo che grazie al sempre meno efficiente welfare pubblico e alla necessità di allocazione di capitali sviluppa un vero e proprio welfare privato

(WP) che poggia la sua penetrazione sulla mercificazione di tutte le componenti della vita dei cittadini.

Il welfare si intreccia con la quotidianità delle persone per tutto l'arco della vita e ne determina pesantemente la qualità, ma nonostante la pervasività che dovrebbe

caratterizzare il sistema di assistenza sociale non è previsto alcun meccanismo di partecipazione e/o controllo da parte dei cittadini nei vari istituti preposti alla erogazione

dei servizi. Infatti il modello che caratterizza sia il welfare pubblico che quello privato è un sistema gestionale di tipo manageriale, dove i cittadini sono trasformati in

clienti e le aziende sanitarie, gli ospedali, le residenze per gli anziani, le case famiglia, le scuole materne, gli asili nido ect.. si basano esclusivamente su indici economici

e non sulla rispondenza ai bisogni dei cittadini nei percorsi di prevenzione, né ai bisogni dei malati, degli anziani, degli infanti e dei soggetti svantaggiati.

Il governo manageriale esclude qualsiasi tipo di controllo o partecipazione dal basso alle scelte operative le quali vengono calate dall’alto attraverso delibere attuative.

L'aziendalizzazione di importanti settori del welfare, dalla sanità alla istruzione non solo non ha risolto i problemi di efficientazione e di spreco, ma ha aperto un varco

culturale al passaggio dal welfare pubblico direttamente verso l'erogazione di servizi da aziende private.

Si osservi a tal proposito l'esplosione di scuole e università private, o alla costante diffusione di strutture mediche-diagnostiche associate, di cui una punta di diamante

è rappresentato dalle cliniche dentali.

In particolare nell'ambito sanitario privato in questi anni si registra una capacità di offerta di alta qualità che va ben oltre l'aspetto alberghiero che caratterizzava queste

strutture nei decenni passati e che in alcuni casi è concorrenziale con il sistema dei ticket della sanità pubblica.

La capacità di investimenti è direttamente proporzionale allo sviluppo di polizze assicurative sanitarie, ma soprattutto all'estensione della sanità integrativa nei contratti

collettivi di lavoro. In questa fase i profitti dei privati escludono una loro presenza significativa nei percorsi terapeutici più complessi e costosi che restano a carico del

pubblico. L'estensione di settori privati è anche avvantaggiata da una struttura contrattuale differenziata tra pubblico e privato con differenze salariali e normative

consistenti che si accentuano ancor di più con l'appalto di molti servizi alle cooperative sociali e sempre di più a quello che viene definito il privato sociale, ovvero al

mondo del volontariato che poco mantiene dello spirito dell'associazionismo e sempre di più dietro questo paravento nasconde un nuovo sistema di sfruttamento.

In comune il welfare pubblico e l'intervento privato nelle sue varie sfaccettature hanno in comune l’uso massiccio di forza lavoro precaria.

Qui, come d'altronde in molti altri settori di lavoro, si pone con urgenza l'obiettivo, evocato oramai da decenni, di affermare una delle richieste storiche del movimento

operaio: stesso lavoro, stessi diritti, stesso salario.

Welfare aziendale

Il welfare aziendale, come abbiamo sopra delineato, favorisce ed aumenta l’espansione del privato a danno del pubblico, producendo così una divisione tra categorie

di lavoratori che hanno la copertura di alcuni servizi con il welfare aziendale definito contrattualmente e categorie che non ce l'hanno e sono costretti ad accedere al

pubblico quali clienti di servizi impoveriti.

Il WA non va visto solo come componente paternalista -quindi unilaterale- dell’azienda, ma come stabile componente contrattuale indispensabile al progetto

capitalista. Occorre infatti la firma del sindacato per dare validità ai contratti stipulati, così come per recedere prima della scadenza degli stessi. Si tratta quindi

di una componente legata alla condivisione del progetto dell’impresa all’interno della quale il lavoratore è inserito.

Sul piano contrattuale il WA evidenzia la centralità della contrattazione che si svolge in azienda, cancellando o riducendo il Contratto Collettivo Nazionale di

Lavoro (CCNL) a pura cornice e a una pletora di osservatori e bilateralità settoriali.

L’impresa dà vita, per necessità, per funzionare, ad un sistema condiviso e collaborativo che vede l’attiva partecipazione dei lavoratori al raggiungimento degli

obbiettivi fissati dall’azienda.

Sui 24mila accordi la composizione del WA presenta: sanità integrativa, previdenza integrativa, assistenza a famigliari e anziani, assistenza all’infanzia, mutui,

assicurazioni varie ecc.. Il salario si ottiene quindi solo in azienda: con premi tassati al 10%, oppure con un WA detassato e decontribuito, ma è l’azienda che

risulta la maggiore azionista del guadagno sotto il profilo finanziario.

Altro che redistribuzione del reddito.

Inoltre lo sviluppo geometrico di accordi sindacali inerenti il Welfare Aziendale, con i benefici estesi anche ai famigliari, contribuisce alla creazione di una

mentalità lontana dalla solidarietà di classe, favorendo la crescita e lo sviluppo di una sempre maggiore competitività tra gli stessi lavoratori.

In assenza di una reale autonomia del sindacato e di una sua visione complessiva, questo passaggio contrattuale sul terreno aziendale/corporativo, nella

cornice della bilateralità, modifica geneticamente il sindacato stesso, realizzando quello che -in tempi non sospetti- abbiamo definito “sindacato di mercato”.

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Automazione, digitalizzazione. Industria 4.0

La “rivoluzione” nell'organizzazione del capitale lascia immutata

la condizione di sfruttati delle lavoratrici e dei lavoratori.


La sostituzione del lavoro umano attraverso l'utilizzo delle macchine è un processo storico che risale alla notte dei tempi.

Dopo l'utilizzo di animali addomesticati per il trasporto o il semplice spostamento di pesi la più grande rivoluzione tecnologica della storia dell'umanità è

sicuramente la ruota, strumento che trova infinite applicazioni anche nella modernità.

Così la definiva Diderot nel XVIII secolo, sei millenni dopo la sua comparsa: "La ruota è una delle principali potenze impiegate nella meccanica e viene

utilizzata nella maggior parte delle macchine; in effetti le principali macchine di cui noi ci serviamo, come l'orologio, i mulini, ecc. non sono altro

che dei sistemi di ruote".

Da allora ad oggi questo processo non si è mai interrotto, a volte si è sviluppato lentamente, a volte il suo sviluppo è stato tumultuoso.

Questo utilizzo di macchine ed utensili ha consentito all'uomo di alleviare in parte i lavori più pesanti nell'agricoltura , nel lavoro artigianale e nella modernità nella

grande industria. Di per se lo sviluppo del macchinismo e oggi della informatizzazione (microelettronica, digitalizzazione) rappresentano un indubbio progresso

nelle condizioni del lavoro. Certo, ma non è lo scopo di questo scritto, l'evoluzione dello sviluppo tecnologico non è neutrale rispetto ai rapporti sociali, e

pensiamo che una società basata sulla valorizzazione dei beni comuni e non sul profitto non avrebbe necessariamente sviluppato la stessa tecnologia capitalista.

Il discrimine non è, come usualmente si pensa, legato a chi e a come si usa la tecnologia, quanto piuttosto chi la produce per chi e per cosa e in quale contesto

di elaborazione, progettazione e rapporti sociali è inserito.

Il dibattito sulla rivoluzione informatica, che oggi si identifica nel concetto di Industria 4.0, paventa scenari catastrofici che spesso nella divulgazione popolare

assumono connotati fantascientifici con robot che alla stregua di alieni conquistatori gestiscono le nostre vite, ma senza inoltrarsi su questo terreno che ci

porterebbe lontano dagli scopi di questo articolo, preferiamo soffermarci sulle previsioni altrettante preoccupate relative alla tenuta dei livelli occupazionali.

Al riguardo ci limitiamo a sottolineare come tali scenari fossero già ampiamente presenti in periodi precedenti allo stesso sviluppo capitalistico, Aristotele nella

Politica dice: “Se ogni utensile potesse eseguire in base a un ordine, o da se stesso, il compito che gli è proprio, l'architetto non avrebbe più bisogno

di operai, né il padrone di schiavi”, e che periodicamente dal dottor Ludd ai “sabots” degli artigiani di Leida si è riproposto con enfasi e dotte

argomentazioni ed analisi ogni qualvolta i sistemi produttivi hanno visto l'introduzione di nuove tecnologie: il vapore, l'energia elettrica, l'automobile, le

comunicazioni radio televisive, l'energia elettrica e a partire dagli anni 70-80 del secolo scorso la microelettronica e la successiva evoluzione dell'informatica

e della digitalizzazione e robotica che rappresenta il “core” di Industria 4.0.

L'osservazione empirica di queste “rivoluzioni” ha mostrato da un lato che la presunta pervasività e rapidità del processo è stato molto più lento di quello

prefigurato permanendo non solo nei paesi arretrati ma anche nell'occidente industrializzato sacche consistenti di modelli produttivi e organizzativi

tecnologicamente non evoluti. Fenomeno questo legato ai diversi stadi di sviluppo del capitalismo nelle diverse aree geografiche e alla possibilità del capitale

di usufruire di mano d'opera a basso costo che rendeva e in parte è storia dell'Italia di questi ultimi decenni, non economicamente vantaggioso l'introduzione

di nuovi e costosi processi produttivi.

In altri termini l'introduzione di nuova tecnologia non avanza fintanto che il capitale ha spazi di manovra sull'estensione del plusvalore assoluto con la

contrazione dei salari, l'aumento dei ritmi, l'aumento della giornata lavorativa.

Alla distruzione di interi settori di forza lavoro si accompagna, però, una successiva creazione di forza lavoro legata alle nuove aree di produzione e alle

diverse competenze necessarie allo sviluppo delle nuove tecnologie, ai nuovi beni di consumo, ai nuovi bisogni materiali e immateriali.

Quello che appare evidente dunque è da un lato l'aumento della produttività e dall'altro la distruzione e in parte la creazione di nuova forza lavoro,

accompagnato da una progressiva deprofessionalizzazione del lavoro con il trasferimento alla “macchina” (computer..) di lavoro intellettuale.

In questa nuova organizzazione del lavoro si assiste ad una polarizzazione professionale, occorrono poche figure di altissima specializzazione, la riduzione

drastica di figure intermedie che sopravvivono più per necessità di controllo gerarchico che per effettiva necessità tecnica, e l'ampliamento di figure di bassa

specializzazione che abbiano però un livello di istruzione media per poter essere usati in maniera flessibile.

Lo sviluppo dei processi di digitalizzazione, nella condizione data del mercato capitalista, così come è stato in passato con l'aumento della produttività

attraverso l'aumento della composizione organica del capitale (aumento del capitale fisso – strumenti di lavoro – e diminuzione del capitale variabile -lavoro-,

ovvero agendo sulla componente del plusvalore relativo), è oggi una priorità del sistema produttivo italiano (industriale e dei servizi) per non essere tagliati

fuori dalla competizione internazionale e dalla colonizzazione di capitali stranieri, siano essi tedeschi, francesi o cinesi.

Questo dato che all'attualità difficilmente è controvertibile pone al movimento dei lavoratori alcuni problemi.

Le prospettive che si aprono non sono molte: subire completamente questo processo o provare ad acquisire alcuni benefici capitalizzando forza e

determinazione. Le posizioni catastrofiste su Industria 4.0 in particolare riguardo la tenuta dei livelli occupazionali non sono esenti da posizioni strumentali

che tendono a premere sugli attuali occupati per cancellare ogni pur minima richiesta di miglioramenti economici e sulle nuove leve del lavoro per fargli

accettare lavori privi di tutele.

Se è vero, come è vero che Industria 4.0 significa aumento della produttività non si può tollerare che la maggiore massa dei profitti vada esclusivamente al

capitale, è necessario pertanto impostare una campagna di rivendicazioni che ponga al centro la redistribuzione della ricchezza, con aumenti salariali

significativi e la contemporanea diminuzione degli orari di lavoro contrattuali e di fatto.

Azione che ha il duplice scopo di tutelare chi sarà coinvolto nei processi di ristrutturazione con la ripartizione del lavoro a fronte delle espulsioni – lavorare

meno,lavorare tutti- e mantenere la forza “operaia” sia contrattuale che “politica” per garantire alle future generazioni di lavoratori condizioni lavorative tutelate.

Questi obiettivi rappresentano un tentativo minimo di contrapposizione e tenuta delle lavoratrici e dei lavoratori in considerazione che la distruzione e la

creazione di forza lavoro non sono contemporanee, nel mezzo a questo sfasamento temporale c'è la vita quotidiana di milioni di persone che continuano

a pagare affitti e mutui, che hanno bisogno di mantenere una propria dignità e che non possono aspettare le briciole del capitale e la carità dello stato.

E' necessario agire!

Più salari, più diritti, meno orario di lavoro per tutelare l'oggi e costruire il futuro.


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