Bollettino di coordinamento dei Comunisti Anarchici e Libertari in CGIL n. 12 giugno 2012
Autonomia
In più di un’occasione la segretaria generale del nostro sindacato ha parlato di numeri magici.
Prima 40, gli anni che dovevano essere il limite oltre il quale nessun lavoratore o lavoratrice era costretto a lavorare per beneficiare della pensione; poi 18, il numero dell’articolo dello statuto dei lavoratori che dal 1970 ha rappresentato, e non solo simbolicamente, un argine contro l’arroganza padronale nella gestione dei licenziamenti. Bene, in solo sette mesi questi due baluardi, questi numeri magici, sono divenuti privi di qualsiasi significato. Le pensioni di anzianità sono state cancellate, l’età pensionabile è stata aumentata e si è inventato un meccanismo che automaticamente sposta in avanti questo traguardo legandolo all’aspettativa di vita e contemporaneamente si sono abbassati i coefficienti di trasformazione per il calcolo della pensione.
L’art. 18 con la fiducia del 27 giugno completamente cancellato senza alcuna contropartita sulle forme di precariato e ciò in barba alla sventolata manovra per i giovani lavoratori.
Questo in estrema sintesi l’opera del Governo Monti sostenuto dal PDL e con convinzione dal PD.
I lavoratori che sono i destinatari su cui calano questi provvedimenti non hanno trovato alcuna sponda credibile capace di costruire un movimento di opposizione che provasse seriamente a cambiare il segno dell’azione governativa. La risposta delle organizzazioni sindacali e della stessa CGIL è stata verbosa e confusionaria, non si è volutamente colto il nocciolo dei problemi e si sono scritti fiumi di parole su aspetti importanti, ma che sono corollari ai veri diritti cancellati.
E’ stato così per il problema delle pensioni, che grazie anche alle organizzazioni sindacali si è ridotto al solo problema degli esodati, e ancora peggio è avvenuto sull’art. 18 dove, di fatto, si è condivisa la soluzione del Governo che ha introdotto il licenziamento senza giusta causa per problemi economici. Salvo alzare un gran fumo sulle forme precarie d’ingresso nel mondo del lavoro che peraltro non hanno sortito alcun minimo cambiamento.
Il DDL sul “mercato del lavoro” già dalla sua enunciazione di per sé smaschera le vere intenzioni di chi si confronta con la vita dei lavoratori. Scompare nelle loro elaborazioni l’individualità della persona lavoratrice che è derubricata a una merce né più, né meno importante delle altre merci. Eppure in un paese dove la disoccupazione giovanile supera il 30%, dove i nuovi lavori sono solo precari e dove centinaia di migliaia di lavoratori, grazie all’improvvisazione normativa dei tecnici, si trovano nel limbo della disperazione senza lavoro e senza pensione, ci sarebbe stato bisogno di un grande progetto di riattualizzazione dei diritti dei lavoratori, capace di dare serenità a chi un lavoro ce là, ma soprattutto di dare la dignità di lavoratori ai milioni di giovani, ma sempre di più anche meno giovani, precari che all’incertezza dei redditi devono aggiungere l’assenza di qualsiasi tutela: ferie, malattia, maternità, diritto di sciopero, libertà e rappresentanza sindacale.
Non è compito di questo breve articolo esaminare le ragioni della crisi, certo è che chi oggi è chiamato pesantemente a sopportarne le conseguenze non è certo chi l'ha generata. Il miraggio neo liberista produce desertificazione economica in ogni paese dove si applica la ricetta del Fondo Monetario, della Banca Mondiale o della BCE. I colossali tagli alla spesa pubblica, unica ricetta adottata in Grecia, come in Spagna e in Italia, stanno letteralmente spolpando i lavoratori e depauperizzando le classi medie, consumato il poco grasso residuo, frutto delle generazioni passate, oggi si stanno attaccando i tessuti muscolari con il risultato di minare alla base qualsiasi possibilità di veloce ripresa. Questo quadro, di presunta oggettività economica, che assume l’impresa e il deficit di bilancio come gli unici parametri da prendere in considerazione, dimentica che l’entità delle manovre sin qui fatte non raggiungono le cifre che la Corte dei Conti ha certificato per i costi della corruzione e dell’evasione fiscale nel nostro paese, rispettivamente 60 miliardi il costo annuale della corruzione e minori entrate fiscali tra imposte dirette, indirette e contributive pari a 140/150 miliardi che corrispondono a una base imponibile non dichiarata di 316 miliardi.
A fronte di questi dati è paradossale che la risposta sindacale non riesca a dare corpo, sostanza e ragioni ai lavoratori, ai giovani, ai pensionati e agli esodati con un’iniziativa non episodica e non frammentata tra categorie e territori .
E’ questo il quadro di riferimento che emerge dalle conclusioni del direttivo confederale CGIL del 18/6 nel quale il problema diventa la costruzione dei rapporti unitari con CISL e UIL e non la risposta da dare alle manovre del Governo: nel documento finale, votato all’unanimità, avendo i compagni della “CGIL che vogliamo” scelto di non partecipare al voto, con un linguaggio cripto sindacalese si cancella lo sciopero generale già deciso nel precedente direttivo. “Proprio in ragione della costruzione di proposte e risposte alla crisi, il Comitato direttivo della CGIL dà mandato alla segreteria di approfondire e definire con CISL e UIL le iniziative più appropriate, mettendo anche a disposizione le ore di sciopero residue già proclamate nelle scorse settimane.”
Nel merito della fiducia sul ddl mercato del lavoro, ampiamente preannunciata dal Governo si rimanda alle iniziative delle strutture nei vari territori, rinunciando a un’azione generale di contrasto dando per scontato l’approvazione del ddl tanto che si posiziona l’organizzazione in un’azione non di contrasto, ma di semplice limitazione degli effetti negativi.
In questa fase poteva essere utile la sedimentazione di un’opposizione interna capace di mantenere aperta non solo una dialettica nell’organizzazione, ma anche utile come riferimento per quei settori di lavoratori che non sono disponibili a subire passivamente le incursioni del Governo e la subalternità della politica, ma anziché privilegiare la tutela degli interessi e il punto di vista dei lavoratori sono prevalsi tatticismi tutti interni al gruppo dirigente, di difficile comprensione a molti degli stessi addetti ai lavori: la Cgil che vogliamo ha preferito l’Aventino e Lavoro Società ha votato a favore con una dichiarazione di voto del coordinatore nazionale priva di qualsiasi rilevanza.
Credo che sia giunto il tempo di assumere come vera priorità quella dell’autonomia della CGIL dal quadro istituzionale e dai partiti politici a partire da quei partiti che grazie al loro sostegno stanno consentendo a Monti cose che anche in decima parte non avrebbero consentito al governo Berlusconi.
I lavoratori non hanno bisogno di numeri magici. C’è semmai la necessità di sapere per cosa si battono e per chi si battono, perché profonda è la consapevolezza della complessità della situazione e della forza che ha il governo e la controparte padronale. Ciò che in questi mesi ha fiaccato la capacità di risposta dei lavoratori è stato l’assenza di un’ azione sindacale che si assumesse la responsabilità di contrastare complessivamente le manovre delle pensioni e del ddl sul “mercato del lavoro”, dando invece la sensazione ed in alcuni casi ben oltre di una sensazione, di condividere pezzi di tali manovre che vanno ad incidere profondamente sulla pelle dei lavoratori. Le azioni di lotta quando sono state proclamate sono state parziali, vedi le tre ore per le pensioni, o solo evocate senza mai tradursi in chiara indicazione da parte dei gruppi dirigenti nazionali che hanno preferito spingere per azioni locali o “spontanee”. Quest’azione confusa, non convinta e soprattutto senza chiari obiettivi che provassero a definire una linea ordinata di difesa, ha prodotto i suoi effetti: scoramento, bassa disponibilità alla mobilitazione e alla lotta. A questo punto il cerchio, questo tragico e non magico si è chiuso, e quello che è il risultato di un’azione certosinamente perseguita di depotenziamento della riposta dei lavoratori, diventa l’alibi dietro il quale dirigenti non solo locali si trincerano per sostenere che non vi è tra i lavoratori la voglia e la determinazione alla lotta.
Quello che alcuni mesi fa si temeva si potesse determinare, ovvero un condizionamento della CGIL da parte dal partito democratico in senso subalterno alle politiche del governo, oggi appare in tutta la sua evidenza. I problemi di linea interna che travagliano il PD hanno moderato e condizionato l’azione della CGIL. Questa linea indebolisce la CGIL e non aiuta a difendere il lavoro, per questo chi ha a cuore la CGIL quale strumento di tutela dei diritti dei lavoratori, ma soprattutto ha a cuore le condizioni di vita dei lavoratori non può non rivendicare il tema dell’autonomia dai partiti è porla al centro della propria iniziativa quale pre requisito per una reale e concreta azione di difesa e di riconquista di quello che in questi anni è stato sottratto ai lavoratori.
* Segretario generale Fp Cgil Livorno *
Riflessioni su l’incontro del 9 Giugno promosso dalla FIOM/CGIL:
“Il lavoro prende la parola – è ora di scegliere” ?
(il punto di domanda lo abbiamo messo noi)
Porre al centro della riflessione e dell’attenzione mediatica le questioni concrete del lavoro, chiedere “conto” ai diversi partiti politici che a questa tematica si richiamano più o meno esplicitamente è sempre un appuntamento importante che varrebbe la pena di ponderare e far sedimentare anche in ambiti più larghi e in periodi più o meno lunghi.
Purtroppo la cronaca politica e sociale degli accadimenti sta velocemente macinando ogni minima riflessione e fra “spread” in continuo movimento, presunte riforme del mercato del lavoro che incombono entro limiti temporali già tracciati, annunci da parte di sottosegretari di riduzione delle ferie e simposi internazionali, seppure inconcludenti e ripetitivi, una riflessione necessaria e ponderata stenta a definirsi.
Il tentativo di discutere in un incontro nazionale da parte di un’importante e radicata struttura sindacale come la FIOM /CGIL intorno e sulle questioni del lavoro con i maggiori leader dei partiti di centrosinistra e alcune individualità schierate nel campo progressista, fra i quali Tronti, Revelli, Rodotà, le stesse indicazioni che il segretario nazionale FIOM, Landini, ha enunciato nella sua relazione introduttiva del convegno sono, al di là di ogni ragionevole dubbio, un tentativo importante e stimolante per qualsiasi partigiano della causa dei lavoratori e della loro emancipazione.
Abbiamo seguito, quindi, con simpatia e attenzione quell’appuntamento nella speranza e nella consapevolezza che appuntamenti del genere, sono sempre e comunque importanti, in più fortemente significativi in una stagione come l’attuale, dove la presunta uscita dalla crisi economica e sociale viene delegata a dei veri apprendisti stregoni, (siano essi governi Tecnici o istituti finanziari internazionali) i quali manifestano come scopo unico la riduzione delle garanzie economiche e sociali delle classi meno abbienti, l’arretramento dei lavoratori nei loro diritti economici e sociali acquisiti con anni di dure battaglie e di lotte.
Ci sembra perciò utile riflettere ulteriormente riguardo a quell’iniziativa ed evidenziare oltre ai meriti già dichiarati i forti limiti e le debolezze intrinseche che, per noi, una tale impostazione presuppone.
Intanto si chiama a quest’appuntamento forze politiche diverse; chi oggi siede in parlamento e appoggia convintamene il Governo Monti e chi pur momentaneamente fuori ne denuncia l’impostazione classista e fortemente reazionaria, partendo dall’acquisizione, più o meno implicita anche se non esplicitamente dichiarata, che manca nel parlamento una forza che rappresenta il lavoro.
Le prossime elezioni politiche, sia che si svolgano anticipatamente nel prossimo autunno o alla loro “regolare” scadenza nella primavera prossima sono il quadro di riferimento.
La reale crisi di rappresentanza che oggi il mondo del lavoro dipendente vive viene svilita e schiacciata sulla presenza o meno di una forza parlamentare che genericamente al lavoro si richiami.
Ancora una volta la situazione viene letta ed interpretata con una lente rovesciata in cui si pensa e si spera di poter genericamente contare nella società e poter oggi definire un argine all’attacco ai propri diritti elementari, dal lavoro al salario, se esiste una rappresentanza politica parlamentare, quando nella realtà avviene esattamente il contrario.
Solo se come classe, insieme di masse lavoratrici e giovani generazioni, si riesce a pesare nelle scelte economiche fondamentali e negli stessi comportamenti collettivi ed individuali è possibile avere o condizionare una rappresentanza politica parlamentare.
I progressi economici e sociali, di volta in volta cristallizzati in leggi e norme dai diversi parlamenti e dalle diverse forze politiche, sono conseguenza dei rapporti di forza reali e di vere e proprie forzature iniziali delle stesse regole leggi e norme precedenti.
La storia dello stesso Statuto dei Lavoratori, la legge 300 del 1970, oggi fortemente decapitato dal Governo Monti e dalla sua Ministra Fornero, attraverso la cancellazione dell’articolo 18, è significativa di un tale andamento.
In quel periodo larghi settori del movimento operaio pensavano che fosse addirittura riduttiva alle reali libertà conquistate nei luoghi di lavoro proprio in relazione alla rappresentanza e ai diritti oramai acquisiti nei posti di lavoro come l’assemblea dei lavoratori.
E fu la Legge 300/1970 ratificata da un timido governo di centrosinistra, con il Democristiano Donat Cattin come Ministro del Lavoro, a cristallizzare i rapporti di forza e non un presunto “partito del lavoro” presente in parlamento.
La crisi di rappresentanza è conseguenza della crisi dei rapporti di forza esistenti e non viceversa.
La classe operaia, i lavoratori, il blocco sociale progressista nel suo insieme, non riesce ad avere un’autonoma visione della battaglia da ingaggiare, una futura prospettiva sociale di trasformazione su cui lavorare, tanto più oggi in una situazione di crisi economica mondiale e quindi di pesante arretramento delle condizioni economiche e sociali dei lavoratori.
La necessità e il bisogno di una rappresentanza politica si determina se un soggetto collettivo e autonomo acquisisce consapevolezza dei propri bisogni e dei propri diritti, dopo di che si manifesta una rappresentanza soggettiva di tali bisogni, tali sono i partiti politici, parlamentari o meno che siano.
Il programma che il Segretario Nazionale Landini ha enunciato dalla tribuna non è un programma condiviso neanche da tutta l’organizzazione confederale in cui la stessa FIOM si riconosce, cioè la CGIL; com’è pensabile e possibile avere una forza politica non minoritaria che si faccia carico di tale proposta?
Occorre in sostanza acquisire coscienza della situazione reale; individuare gli obiettivi fondamentali su cui far convergere le battaglie, generalizzare il conflitto, praticare l’obiettivo.
Acquisire, in questo modo egemonia anche culturale ed essere più avanti della cristallizzazione legislativa che qualsiasi parlamento può fare.
Non ci sono altre scorciatoie: né parlamentari, né di coalizione, né strane alchimie elettorali.
Il precedente Governo Prodi del 2006 fu esemplare a tale riguardo.
Avendo pur vinto sul terreno elettorale non ha minimamente interrotto l’egemonia liberale che dal oltre 30 anni si respira in Italia e nel mondo e al di la della contingenza sul come sia caduto, il primo atto legislativo fu quello di “regalare” oltre 4 miliardi di euro al padronato, mentre la famosa questione della “quarta settimana” con cui riuscì a spostare quote di elettorato moderato verso la coalizione di centrosinistra vincendo le elezioni diventò per la maggioranza di noi la “terza”.
Eravamo nel 2006/2008, non mille anni fa. Il resto è cronaca più o meno nota.
Se queste argomentazioni riguardano la riflessione fra rappresentanza politica e rapporti di forza in generale nelle moderne società, tornando all’incontro promosso dalla Fiom /CGIL, diventa quasi risibile avere oggi questi interlocutori.
Il PD per autodefinizione non può essere il partito del lavoro, in quanto prodotto di unione di forze dichiaratamente interclassiste come i democratici popolari, ex D.C. e i residui del vecchio PCI Togliattiano, realmente mai portatore di battaglie partigiane del mondo del lavoro, ma sempre sensibile e attento a quei ceti produttivi nazionali, periodicamente individuati e corteggiati quali utili portatori di quel progetto utopistico, anch’esso concretamente interclassista, del patto fra produttori.
L’IDV, ha matrici dichiaratamente liberali, a livello europeo situato a suo agio nel gruppo liberaldemocratico, con forti venature di populismo da parte del suo capo Antonio di Pietro e a dispetto delle costanti invettive antiberlusconiane, fortemente partito padronale.
Per quanto riguarda SEL e la Federazione della Sinistra, con i vecchi arnesi stalinisti alla Diliberto o i più nuovi e movimentisti alla Vendola e Ferrero, tali formazioni formano il vecchio crogiolo di quella che fu Rifondazione Comunista che con alterne vicende, anche a volte fortunate e in parte positive, hanno lungamente praticato e condiviso quel cretinismo parlamentare che già li aveva portati a uscire con le ossa rotte dalla competizione parlamentare ed oggi si ripropongono, come prima, senza alcuna seria riflessione su l’uso e la tattica da usare.
Per questo residuo di ceto politico riportiamo alcune valutazioni che già esprimemmo nel lontano 97 all’indomani del varo delle nuove misure per l’occupazione, nota ai più come Pacchetto Treu, varata dalla allora maggioranza governativa con l’avallo significativo del Partito della Rifondazione Comunista e che a tutt’oggi risultano essere l’aspetto prioritario di tale compagine politica.
“Per quale motivo allora i neocomunisti italiani hanno avallato tale progetto? “ ci chiedevamo?
“Il calcolo è esclusivamente elettoralistico, tipico di tutte quelle formazioni politiche massimaliste nei pronunciamenti, riformiste nella sostanza.
Tale contraddizione impedisce a questo partito di individuare e praticare una battaglia politica e sindacale chiaramente classista, ripetendo, in versione omeopatica e caricaturale, la già tragicomica versione del vecchio PCI del partito quasi di governo e di lotta.
Il vero ed unico scopo del gruppo dirigente di Rifondazione Comunista è quello di scambiare, ancora una volta, il loro peso elettorale, strategico e necessario per ottenere la maggioranza parlamentare da parte della coalizione dell'Ulivo, cercando di assicurarsi in prospettiva una riforma elettorale che non sia particolarmente punitiva della loro rappresentanza politica.
Un proprio e vero esempio di cretinismo parlamentare, dove non si tiene conto che il mondo reale è esattamente alla rovescia di ciò che il gruppo dirigente di Rifondazione Comunista pensa.
Senza entrare nel merito delle nostre radicate convinzioni antiparlamentariste è indubbio che una siffatta rappresentanza politica al massimo possa ottenere uno strato di professionisti della politica che fra istituzioni locali, regionali, nazionali e sindacali, ha come unico scopo il riciclarsi come ceto e sopravvivere a se stessi, ma lontana dalle esigenze reali di affrancamento e di libertà delle nuove generazioni.
I rapporti di forza necessari per il mutamento e miglioramento delle condizioni di lavoro si costruiscono nelle battaglie sociali e sindacali e non nelle mediazioni governative.”
Allora per il “Che fare” di oggi occorre ricominciare da capo.
Presa di atto dei rapporti di forza e lungo lavoro di ricostruzione del tessuto oramai logorato della solidarietà, della militanza sindacale e politica.
Nessuna scorciatoia tanto meno parlamentare può essere utile alla causa dei lavoratori.
Occorre prendere atto, ora più di prima, che esiste fortunatamente una cospicua minoranza di uomini e donne che non hanno ancora smarrito l’esigenza e la necessità del cambiamento e dell’alternativa al capitalismo.
L’errore fondamentale in questi ultimi 30 anni oltre allo scambiare o spacciare il liberismo con il riformismo, è stato quello di occultare la cruda realtà della lotta di classe, tentare di edulcorare un contrasto d’interessi che è storico ed inevitabile fra gli interessi privati (quello dei padroni) e gli interessi collettivi (le masse dei lavoratori e le giovani generazioni).
Si è smarrito, negato e volutamente occultato, la funzione creatrice e liberatoria del conflitto di classe.
Tutto si è capovolto più e più volte.
Non solo il liberismo è stato salutato come riformismo, si pensi al giudizio contro i presunti “lacci e lacciuoli” che la stessa sinistra ha interiorizzato per esempio nei rapporti di lavoro subalterno introducendo appunto la più completa discrezionalità da parte padronale e governativa, salvo verificare che oggi oltre 2 milioni di lavoratori sono precari e di questi circa la metà sono over 35.
Oppure all’esaltazione della competitività e della produttività come elemento cardine della buona salute del sistema delle imprese, salvo verificare che questa inesorabilmente si sviluppa sul costo del lavoro e sulle garanzie minime dei lavoratori.
Nella contrapposizione oramai storica e forse superata fra riformisti e radicali, nel senso che non ci sono più i riformisti, la rottura si determinò sui mezzi da adottare, ma per entrambi la meta finale era il socialismo.
In questa disputa storicamente hanno avuto ragione i radicali, poiché l’altra strada, il parlamentarismo, ha determinato lo svuotamento e lo smarrimento della meta finale e la rincorsa spasmodica alla tenuta parlamentare e di conseguenza al cretinismo parlamentare.
Oggi il bivio che abbiamo di fronte è forse tragicamente più che mai fra socialismo o barbarie.
Iscritto cgil**