Difesa sindacale
 
     
 
 
 
 
 Home

ds

Comunisti Anarchici e Libertari in CGIL N. 50 settembre 2019

“DIFESA SINDACALE”: CINQUANTA NUMERI

Quando abbiamo iniziato Difesa Sindacale la nostra intenzione era quella di contribuire al dibattito ed alla riflessione dell’azione sindacale in Cgil, oltre che sul sindacato in generale, continuando nel solco storico di quei compagni anarchici che, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, scelsero di stare all’interno della rinata confederazione.

Oggi, arrivati al numero 50 di Difesa Sindacale, possiamo fare un bilancio positivo di questo strumento che ci ha permesso di avviare una riflessione e un confronto a tutto campo sull’intervento sindacale in CGIL, rivolgendoci soprattutto a quelle compagne e compagni che all’interno della confederazione hanno mantenuto una impostazione sindacale legata alla difesa degli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori per un sindacato partecipato che sia in grado di riunificare il mondo del lavoro su obiettivi all’altezza delle necessità e dei tempi.

Questo numero di D.S. esce in un momento particolare che vede da una parte la crisi del governo giallo-verde, non certamente provocata da mobilitazioni di massa nei posti di lavoro e sul territorio, ma piuttosto da un mero calcolo elettoralistico di Matteo Salvini, peraltro

una parte la crisi del governo giallo-verde, non certamente provocata da mobilitazioni di massa nei posti di lavoro e sul territorio, ma piuttosto da un mero calcolo elettoralistico di Matteo Salvini, peraltro rivelatosi sbagliato, e dall’altro la nascita di un nuovo governo M5S-PD che in nome di un comprensibile “tutti contro Salvini” rischia di far dimenticare che il PD che ha formato il nuovo governo è quello stesso partito, anche senza Renzi, del Jobs-Act e della “buona scuola”, è quel PD che ha cancellato l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori in nome di una “diversa” e più “moderna” visione dei temi del lavoro, e che, nello stesso tempo, il M5S resta quel movimento ambiguo che ha contribuito all’attuazione di leggi discriminatorie, razziste e repressive.

Con questo nuovo governo vi è un rischio reale di un pieno ritorno della CGIL a un ruolo subalterno alle esigenze della politica parlamentare, scivolando così verso un pericoloso collateralismo al governo stesso. Questo perché è sempre presente la visione di chi, orfano di una rappresentanza politica nelle istituzioni, continua a vedere principalmente nell’azione parlamentare ogni prospettiva di cambiamento, e pertanto la costituzione di un governo che ha al suo interno anche una componente più di “sinistra”

nelle istituzioni, continua a vedere principalmente nell'azione parlamentare ogni prospettiva di cambiamento, e pertanto la costituzione di un governo che ha al suo interno anche una componente più di “sinistra” come LEU potrebbe indebolire la capacità critica di molte compagne e compagni sull’azione del Conte Bis. Per noi Comunisti anarchici e libertari presenti in CGIL, invece, la salvaguardia della forza organizzativa, di mobilitazione, di lotta del sindacato non può prescindere da una visione autonoma e di classe che non sia subalterna a nessun governo. Questo perché siamo assolutamente convinti che solo un forte movimento di lotta che torni a parlare di salario e di qualità della vita, di sicurezza e salute sul lavoro, che affronti le drammatiche condizioni della disoccupazione e del precariato crescenti, ponendo il problema di una più equa distribuzione della ricchezza, potrà costruire le basi della ripresa, proiettandosi, al contempo, verso la realizzazione di un forte sindacato europeo capace di rivendicare diritti del lavoro uguali per tutti i lavoratori, che metta un argine al processo di contrapposizione tra lavoratori di paesi diversi, che sia, quindi, un concreto primo passo verso la costruzione di una visione realmente interna- zionalista che si opponga alle pericolose deviazioni sovraniste presenti anche a sinistra.

Oggi più di ogni altra cosa è necessario ripartire da quelli che sono i problemi dei lavoratori e dei pensionati, dei disoccupati, dei giovani, è necessario ribadire che esiste un problema serio di impoverimento di tutto il mondo del lavoro e che pertanto è indispensabile rivendicare consistenti aumenti salariali, non solo attraverso l’abbattimento del cuneo fiscale come sostiene lo stesso PD e parte della sinistra, ma piuttosto attraverso una redistribuzione di quella enorme ricchezza che negli anni si è sempre più spostata dai salari ai profitti, ed al contempo rilanciare una grande battaglia per una concreta riduzione dell’orario di lavoro come strumento capace di redistribuire lavoro e reddito.

... chiediamo maggiore sensibilità, più responsabilità, più decisione, perché si addivenga ad un effettivo coordinamento quando questo è necessario, perché non sia continuamente rimandata la generalizzazione di una agitazione quando è possibile, perché non sia sempre scartato lo sciopero generale quando è chiamato a gran voce dalla base.
Chiediamo, in una parola, maggiore fiducia nella capacità di lotta della classe operaia
."
(Dichiarazione della Corrente Anarchica di Difesa Sindacale al IV° Congresso della CGIL- 1956)

Difesa Sindacale

 

“Sarà un problema loro”

di Giulio Angeli Cgil Pisa

 

E’ quanto ha proferito il segretario generale della CGIL Maurizio Landini, sollecitato in un’intervista televisiva sul voto delle iscritte e degli iscritti CGIL alle recenti elezioni europee. All’interno dell’organizzazione il voto ha infatti registrato consensi alle formazioni governative pari al 38,9% (IPSOS), che è un dato politico molto rilevante che il segretario generale liquida con una battuta che nasconde l’evidente difficoltà nell’ affrontare il problema. Secondo i dati le iscritte e gli iscritti alla CGIL avrebbero votato: PD, 48% - M5S, 19,9% - Lega, 18,5% - FI, 1,5 - FdI, 0,4% - La sinistra, 5%. Il 20,4%, un iscritta/o su 5, avrebbe quindi votato consistentemente a destra (Lega + FI + FdI), replicando una tendenza storica che è andata allargandosi dalle aree non metropolitane di Piemonte, Lombardia, Veneto e Liguria, a forte caratterizzazione democristiana prima e leghista poi, fino a intaccare le aree metropolitane e industriali del nord e del centro (Emilia Romagna, Toscana, Umbria Marche), caratterizzate dal modello di capitalismo cooperativo e progressivamente aggredite anch’esse dalla crisi e dalla scomposizione di classe. Il 19,9% avrebbe votato M5S: questa percentuale, sommata a quella della Lega, portano il consenso alla compagine governativa al 38,4%. Sempre secondo l’indagine il 58% delle iscritte e degli iscritti alla CGIL parrebbe apprezzare il governo Conte, mentre l’indice di gradimento per Salvini  giungerebbe al 44%, seguito da un 39% per Luigi Di Maio. Conseguentemente il rilevante 48% di voti al PD, che in CGIL raddoppia significativamente la quota riscossa da questo partito alle ultime elezioni europee, non dovrebbe essere salutato come una novità in quanto si colloca nella tendenza, sia pure declinante, che già vide ampi consensi al PCI – PdS - DS, che l’attuale PD non recupera. Sono dati questi non sottovalutabili in quanto segnano una svolta storica nella storia della CGIL e non possono essere liquidati in quattro battute in quanto meritano una riflessione approfondita. In ambiti CGIL si paventa, talvolta con sconclusione, una deriva a destra conseguentemente elevando la rilevante quota raggiunta dal voto al PD (48%), ad argine alla reazione e, più concretamente, per ricomporre gli equilibri interni al gruppo dirigente dell’organizzazione in chiave moderata e favorevole a un rinnovato rapporto con il PD e con un eventuale governo di centrosinistra quale interlocutore delle politiche sindacali, in una prospettiva neo concertativa ormai superata dalle tendenze della crisi, ma ancora bel salda in CGIL volta a rinsaldare l’unità con i vertici neo corporativi CISL e UIL; oppure si enfatizza il risultato ottenuto dalla lista “La sinistra” e dai verdi, le cui liste si assesterebbero complessivamente intorno all’8% dimostrando anche una qualche “indulgenza” rispetto al 20% di voti al M5S, in quanto tale percentuale sarebbe caratterizzata da numerosi voti di protesta che, almeno nelle intenzioni, potrebbero anche essere recuperati da una risorta sinistra sindacale. Per quanto queste schematizzazioni debbano essere prese “con beneficio di inventario”, descrivono abbastanza fedelmente lo schierarsi dei gruppi dirigenti della CGIL rispetto al problema del voto e, così come accade nel panorama politico nazionale, anche nella CGIL si elude volentieri un fenomeno in deciso aumento: secondo l’indagine il 37% delle iscritte e degli iscritti avrebbe disertato le urne, il che costituisce il secondo dato percentuale più rilevante. Tralasciando le affermazioni per le quali l’astensionismo è comunque un fenomeno esecrabile e qualunquistico, ascrivibile “tout court” all’antipolitica e alla reazione, si registrano anche altri giudizi più avveduti, che tentano di parare il colpo adducendo che la percentuale delle astensioni è, nella CGIL, comunque inferiore alla media nazionale che si attesta al 44%: il che vuol dire individuare il problema per poi rimuoverlo sbrigativamente e il risultato non cambia.

L’astensionismo è un fenomeno articolato, complesso e inevitabilmente contraddittorio, ma che merita un’indagine approfondita e urgente, al fine di stabilire in quantità e qualità se quel 37% di astensioni abbia intercettato, e in che percentuale, quei settori militanti che in questi ultimi decenni hanno retto l’opposizione di classe in CGIL. Facciamo un breve ragionamento seguito da un’ipotesi tanto per comprendere l’importanza dei numeri riferendoci, per semplicità, alle sole lavoratrici e lavoratori attivi che raggiungono in CGIL la quota di 2.500.000 circa: se il 37% di queste e questi non ha votato si raggiunge la considerevole cifra di 925.000. Supponiamo ora che tra le iscritte e tra gli iscritti la quota di astensioni sia fortemente minore del 37%, e che una quota considerevole di questa percentuale abbia subito il disinteresse, il qualunquismo e la sfiducia e che possa quindi considerarsi sindacalmente e politicamente passiva, il che costituirebbe già un grave problema politico perché significherebbe che la CGIL non procede efficacemente nello sviluppare la consapevolezza sindacale delle proprie iscritte/i. Ammettiamo quindi di considerare le sole astensioni consapevoli orientate verso la militanza di classe quantificandole come l’1% del totale (37%): nonostante la semplificazione eccessiva siamo già a oltre 9.000 iscritte e iscritti, che è un patrimonio militante considerevole che, se ben finalizzato, potrebbe spostare gli equilibri interni all'organiz- zazione, così come è già accaduto in altre epoche storiche, quando nell’organizzazione la minoranza di classe era attestata al 18%. La sinistra sindacale nei suoi intenti di riaggregazione dovrebbe tenere in serissima considerazione questo dato piuttosto che inseguire una sempre più effimera “sponda parlamentare”.Chi segue quest’ultima tendenza auspica una forza politica parlamentare in chiave moderata, che è la componente concertativa che, tradizionalmente, guarda al PD; c’è poi chi guarda più a sinistra, auspicando una sponda parlamentare costituita da una forza politica “del lavoro”, con la quale impostare un rapporto privilegiato sia pure salvaguardando l’autonomia della CGIL, senza per altro spiegare come questa salvaguardia, e con essa la rinnovata autonomia della CGIL, dovrebbe e potrebbe esplicarsi.

Di contro l’astensionismo non costituisce l’alternativa perché è un fenomeno politico complesso e contraddittorio, che deve essere attentamente valutato perché esprime, anche in CGIL, componenti militanti che motivano il non voto in base a analisi precise e a altrettante precise prospettive politiche e sindacali. Queste componenti esprimono comunque forze salde e sindacalmente affidabili per riaffermare la difesa degli interessi delle classi subalterne e per contrastare efficacemente la deriva moderata e concertativa della CGIL, rispetto a chi vota in base al qualunquistico principio del “meno peggio” e del “voto utile”, o inseguendo la costruzione di una forza politica parlamentare “del lavoro”. Nella situazione attuale è possibile costruire equilibri favorevoli al lavoro solo se si riconosce la crisi del parlamentarismo e che questa crisi può essere un’opportunità, per rilanciare una prospettiva di concreta autonomia della CGIL dai partiti, dai governi e dallo stato.

 

La Cgil di Landini, tra speranze e delusioni

di Carmine Valente Cgil Livorno

La CGIL non ha bisogno di leader carismatici nella speranza di risolvere con questi i propri ritardi che derivano anche dalla sua storica subalternità al quadro capitalistico. Né le iscritte e gli iscritti possono seriamente ritenere che Maurizio Landini, investito di una grandissima responsabilità ereditando una CGIL fortemente indebolita, possa fare miracoli. Né la segreteria Landini può essere ridotta a un qualche espediente congressuale, né si può credere che un solo uomo al comando possa restituirci una CGIL capace di difendere gli interessi delle classi subalterne.“ Difesa Sindacale n.48 Marzo 2019

Nel mese di marzo di quest'anno nel commentare l'esito del XVIII congresso nazionale della Cgil con l'elezione di Maurizio Landini a segretario generale, cercavamo di mettere in guardia i lavoratori e i quadri sindacali sul pericolo di addossare soverchie aspettative sulle capacità di imprimere una svolta all'azione sindacale della nostra confederazione con questa elezione. Peraltro il cipiglio battagliero del leader della Fiom aveva già perso molto del suo smalto. Dopo anni in cui la categoria da lui condotta sembrava aver riscoperto la determinazione che rimandava a tempi oramai remoti del secolo trascorso, sotto la sua direzione sottoscriveva un contratto nazionale tra i più regressivi della storia sindacale, dove dietro il paravento della conferma della centralità del CCNL si apriva alla supremazia del salario aziendale, peraltro con forme di welfare aziendale e di benefit. Non sappiamo quanto questa scelta possa essere stata influenzata dalle aspettative di “carriera” nella segreteria confederale, ma certo per molte compagne e compagni che nelle assemblee hanno provato a contrastare questa deriva di subalternità cogestiva la firma a questo pessimo contratto è apparso come il viatico per l'ingresso in segreteria confe- derale prima e per la successiva nomina a segretario generale. Eppure tutto questo sembra non scalfire la fiducia che si registra intorno al “segretario operaio”, sia tra i quadri sindacali sia tra larghi settori di lavoratori iscritti e non iscritti alla Cgil. Ancora una volta la costruzione dell'immagine, quello che in decenni passati veniva descritto come l'immaginario collettivo ed oggi con la neo lingua del terzo millennio è definita la narrazione di un soggetto e di un evento ha il sopravvento, i fatti pesanti come pietre scompaiono, a suggestio- nare rimane l'immagine costruita.

La Cgil che eredita Landini è quella che sostanzialmente condivise la manovra lacrime e sangue del governo Monti, quella che ritenne di poter accettare le modifiche all'art. 18 e non seppe opporsi alla sua successiva cassazione. E' quella che ha protestato a parole per l'abrogazione sostanziale dell'art. 4 dello statuto dei lavoratori (video-sorveglianza) e dell'art. 13 (mansioni superiori e demansionamento). La Cgil che invece di organizzare la mobilitazione, raccoglie firme per i referendum, la Cgil che rivolge petizioni alle istituzioni, locali e nazionali, che evoca lo sciopero generale, ma non fa niente per organizzarlo. La Cgil che anziché trovare forza e vigore per la rottura con quel PD a trazione renziana, è frastornata e incapace di darsi una strategia di lungo respiro e anche nelle componenti della cosiddetta sinistra sindacale per anni si lamenta di non avere una sponda politica. La direzione di Landini non cambia il quadro. In questi mesi in cui l'instabilità politica e istituzionale la fa da padrone il ruolo del sindacato nella società è sbiadito, non è il punto di riferimento intorno al quale si raccolgono le lavoratrici e i lavoratori che subiscono il perdurare della crisi economica. La stessa azione meritoria di demistificazione delle politiche di chiusura nei confronti dei migranti, dell'imbarbarimento dei rapporti sociali e le forme di segregazione civile e politica di parte importante della popola- zione quali giovani e anziani, non riesce a trovare ascolto tra gli stessi iscritti alla Cgil che come confermano gli studi sui flussi elettorali preferiscono, con percentuali imbarazzanti, affidare il loro destino ai populisti e ciarlatani della politica. Il perimetro entro il quale si trovano ad operare le Camere del Lavoro e le diverse categorie sul territorio è sempre più angusto, nella migliore delle ipotesi si gestiscono le cassa integrazioni e a volte si contrattano i licen- ziamenti, nella peggiore si assiste impotenti alla scomparsa di piccole e/o picolissime attività produttive e di servizi. La fiducia nella lotta viene meno e tra i lavoratori il sindacato è sempre di più visto come l'ufficio dove rivolgersi per i problemi fiscali o dove trovare un avvocato per avviare una vertenza individuale.

Cambiare passo

La lunga campagna elettorale in cui si è avviluppato il nostro sistema istituzionale ha imbri- gliato per mesi la stessa azione sindacale, le Camere del Lavoro in molte realtà territoriali sono diventate le tribune per i candidati sindaci, l'anti salvinismo è stato il collante delle iniziative, ma i problemi per lavoratrici e lavoratori sono tutti pesantissimi sul tappeto. Il nuovo clima politico che in parte si respira e che per il momento ha chiuso in un angolo l'arroganza sovranista, rischia di riannodare i fili di un nuovo collateralismo con le forze moderate, liberal-democratiche oggi alla guida del paese. Quello che manca alla Cgil di Landini è un programma strategico che faccia pernio su alcuni obiettivi unificanti quali consistenti aumenti salariali tesi a restringere la forbice retributiva, la diminuzione dell'orario di lavoro giornaliero, per aumentare il tempo di vita liberato dal lavoro, e per distribuire il lavoro con chi non ce l'ha. Come corollario a questi obiettivi è necessario porre la revisione della registrazione dei Contratti Collettivi presso il Cnel e la loro validazione democratica attraverso la prassi del voto referendario dei lavoratori dalla fase di elaborazione delle bozze contrattuali alla definitiva sottoscrizione. Per quanto riguarda i CCNL oggi siamo difronte ad una vera e propria giungla contrattuale. Il CNEL nei 13 settori in cui suddivide le diverse aree contrattuali registra oltre 800 contratti nazionali, stipulati dalle più diverse e fantasiose organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori. Solo nel settore della Distribuzione Terziario e servizi si contano ben 217 CCNL.

Tabella (dati CNEL) nostra estrapolazione

Contratti agricoltura 51

Alimentaristi 42

Aziende di servizi 45

Plurisettoriali, Altri e Vari 70

Chimici 25

Distribuzione Terziario e Servizi 217

Credito e Assicurazioni 19

Edilizia, Legno e Arredamento 73

Istruzione, Sanità, Assistenza,

Cultura, Enti, Sindacati 99

Meccanici 33

Poligrafici e Spettacolo 41

Tessili 27

Trasporti 62

Totale 13 settori 804


E' del tutto evidente che districarsi in questa babele contrattuale non è affatto semplice, ma soprattutto, considerato anche la debolezza vertenziale che caratterizza l'attuale momento, è invece semplice per padroni e controparti datoriali imporre contratti che di fatto determinano un dumping sociale. Tale situazione è ben conosciuta ed è stata più volte oggetto delle riflessioni sindacali, ma al di la di un appello alla politica e alle istituzioni non si è mai andato.

Le politiche di inclusione che fanno parte del dibattito interno all'organizzazione e su cui sarà necessario un approfondimento specifico, ben difficilmente potranno avere gambe se l'obiettivo di un drastico ridimensionamento dei CCNL non diventa anch'esso un obiettivo di mobilitazione e di lotta, tanto più necessario in rapporto a quelle aree di lavoro che sfuggono più o meno legalmente alla tutela dei diritti collettivi sanciti dalla contrat- tazione . Finto lavoro autonomo, gig-economy, collaborazioni sportive dilettantistiche, ect...

Gestire il cambiamento?

Il presunto “realismo” sindacale che ha contraddistinto, negli ultimi decenni, l'azioni delle confe- derazioni e della stessa Cgil ha spesso usato come elemento dialettico la parola d'ordine “gestiamo il cambiamento” o “le trasformazioni cui è soggetto il mondo della produzione e del lavoro avverranno senza di noi e contro di noi”. Questa parola d'ordine la sentiamo oggi evocare dal segretario generale Landini. Ancor prima di vedere cosa significa concretamente oggi questa affermazione sarebbe opportuno rivolgere lo sguardo al passato e analizzare i guasti e i veri e propri danni che attraverso questa logica si sono determinati nell'organizzazione del lavoro e nella stessa interiorizzazione di prassi e costumi tra le lavoratrici e i lavoratori che hanno fatto propri i punti di vista del padrone. Spesso gestire il cambiamento ha significato soltanto un ricono- scimento formale della rappre- sentanza sindacale in cambio di una qualche agibilità sindacale che oggi peraltro son venute meno. Il cambiamento che significa modelli produttivi, tecnologia, prodotti, spesso è stato assunto acriticamente, dando alla ricerca scientifica e tecnologica una patente di neutralità, concentrando l'atten- zione solo sull'uso che di questa tecnologia veniva fatta, ciò non solo non ha permesso di contrastare tale sviluppo ma ha consentito di accreditare l'idea che non sia possibile una scienza e una tecnologia diversa da quella che oggi viene sviluppata. Un esempio eclatante è quello che avviene nel settore della prevenzione e sicurezza del lavoro. Gli assi fondamentali che contraddistinguono le politiche della sicurezza ruotano attorno a tre cardini: formazione, informazione e controllo. Sicuramente sono aspetti importanti e la loro disattenzione è la concausa di quel vero e proprio olocausto che sono le morti sul lavoro. L'OIL (Organizzazione internazionale del lavoro) nel suo ultimo rapporto su Salute e Sicurezza sul lavoro regista che “Ogni anno 2,78 milioni di lavoratori muoiono a causa di infortuni e malattie professionali”. E' colpevole l'assenza di una forte richiesta di ricerca per sviluppare una tecnologia sicura nelle macchine operatici, è inconcepibile che nel mentre si progetti una missione su Marte non si sia in grado di progettare trattori antiribal- tamento, muletti (forklift) sicuri, cisterne che impediscono l'ingresso, e altro che ricercatori e scienziati debitamente indirizzati e finanziati possono sviluppare. Quanto questa parola d'ordine del “gestire il cambiamento” provochi in noi apprensione è legato a momenti centrali del conflitto sindacale, quando il padronato che aveva in qualche modo subito il protagonismo operaio dovendo concedere salario e nuovi diritti, provò a disarticolare la forza dei lavoratori attaccando quelle che anche nel gergo delle direzioni burocratiche del sindacato erano definite rigidità. La flessibilità, con l'appendice del part-time, è stato uno di quei cavalli di troia che grazie anche alla complicità del sindacato che ne elogiava l'applicazione è stato uno di quei cambiamenti che hanno permesso quella frantumazione dell'orario di lavoro che oggi vede in quei settori di forte espansione quali la distribuzione e la logistica il proliferare di contratti part-time imposti che hanno generato e generano quella nuova categoria sociale dei lavoratori poveri. Nella grande distribuzione part-time orizzontali di 20 ore, part-time verticali nei fine settimana, nelle pulizie part-time settimanali di 12 ore ect.

Quello che manca è un programma strategico che faccia pernio su alcuni obiettivi unificanti quali consistenti aumenti salariali tesi a restringere la forbice retributiva, la diminuzione dell'orario di lavoro giornaliero, per aumentare il tempo di vita liberato dal lavoro, e per distribuire il lavoro con chi non ce l'ha.

 

Salario minimo orario e lotta di classe

di Cristiano Valente Cgil Livorno

Contro l'avanzamento di disvalori collettivi quali xenofobia, razzismo, contro la diffusione della rabbia sociale e l'ulteriore frantumazione del tessuto sociale e civile, la necessità di ritrovare il solco di una pratica solidaristica generazionale e di genere presuppone la ripresa delle lotte economiche e politiche del movimento operaio, la sua ritrovata autonomia .

Le ultime indagini e statistiche relative alla condizione salariale complessiva della forza lavoro in Italia testimoniano una presenza di lavoratori al di sotto dei minimi contrattuali all'incirca del 10% del totale della forza lavoro. A questa cifra va sommata quella delle lavoratrici e dei lavoratori che, pur facendo riferimento ad un contratto nazionale siglato fra le parti, sono inquadrate e inquadrati in contratti cosiddetti "pirata", stipulati dalle diverse associazioni datoriali con sindacati di comodo, gialli o corporativi.

In una recente indagine (vedi grafico sottostante) i contratti collettivi nazionali sottoscritti in Italia sono passati da 498 a 864.

cnel

Per chi lavora in ristoranti, alberghi, agenzie viaggio e affini i contratti specifici sono 42, più 14 contratti generici, allargati anche a chi lavora nel turismo. Nel commercio i contratti sono più che raddoppiati: erano 91 nel 2010; sono diventati 214 nel 2018. Si contano 18 tipi di contratti per il settore agenti agenti, 11 per le imprese di vigilanza, 26 per gli studi professionali. In agricoltura sono passati da 18 a 52; nell’industria meccanica da 11 a 31. Fino al caso di Fiat che, uscita dall’associazione Federmeccanica e quindi dalla Confindustria, ha siglato un suo contratto con i rappresentanti delle lavoratrici e dei lavoratori. È uno dei 31 archiviati al CNEL sotto la voce meccanica.

Questi contratti nazionali di settore possono avere voci salariali inferiori anche del 20%, con un differenziale retributivo annuo che può variare da 2.000 € a 3.500 €.

Questo significa che in un solo anno la differenza salariale tra chi compie lo stesso lavoro può variare da due a tre mensilità l'anno. Esistono poi larghi ambiti lavorativi dove il datore di lavoro obbliga le lavoratrici e i lavoratori a contratti part time non volontari (ciò avviene particolarmente nella grande distribuzione e nei settori alberghieri e turistici) o modalità di contrattazione a tempo determinato. La somma di coloro che usufruiscono di contratti simili supera la soglia dei 5 milioni su 23 milioni circa del totale della forza lavoro dipendente. Oltre il 20%. Siamo di fronte, quindi, a milioni di lavoratori che vivono al di sotto di quella che viene definita la soglia minima di sussistenza, prevista dall'art. 36 della nostra Costituzione, a conferma vieppiù di quanto la pura norma cartacea sia inutile e di fatto inapplicata, a fronte dei reali rapporti di forza esistenti fra le classi. Tutte queste lavoratrici e questi lavoratori, vengono indicati nella letteratura economica politica e sindacale come "working poor" : cioè poveri nonostante abbiano un lavoro. A fronte di un tale senario sociale la discussione sulla proposta di un salario minimo orario, già presente nel programma di Governo giallo verde e ripreso dall'attuale governo M5 Stelle e PD con l'indicazione della stessa senatrice grillina Nunzia Catalfo, prima firmataria della proposta del salario orario minimo legale, a nuovo Ministro del Lavoro assume un significato politico importante, per tutto il mondo del lavoro subordinato, per le organizzazioni sindacali e chiaramente per la controparte padronale. Attualmente la discussione è rimasta congelata a partire dal Disegno di Legge presentato dal Movimento 5 Stelle, seguito da un altro Disegno di Legge a firma Partito Democratico e dalle diverse posizioni degli attori istituzionali quali ISTAT, INPS, CNEL, Organizzazioni sindacali tutte e le associazioni ed organizzazioni padronali, Confindustria in testa. Proprio quest'ultima, fortemente contraria alla misura del salario minimo orario, nei suoi documenti afferma: (1) "... l’introduzione di un salario minimo legale non risolverebbe, di per sé, il problema di adeguare i salari più bassi. Questo risultato, esattamente come oggi accade per i livelli salariali definiti dalla contrattazione collettiva, richiede invece uno sforzo maggiore per il rispetto delle regole.... ".

La chiarezza delle posizioni padronali è al pari della loro tracotanza. Per l'organizzazione padronale è fin troppo evidente e chiaro, che al di la della definizione legale di una qualsiasi cifra del salario minimo orario, la realtà dei salari reali non sarà data dalla norma cartacea, ma dai rapporti di forza esistenti fra le classi, che il capitale chiama mercato. Una recente conferma di questa affermazione deriva dal testo della legge delega di riforma del lavoro, il cosiddetto Jobs Act, L. n. 183 del 2014, art.1 comma 7 la quale, pur prevedendo l’introduzione di un salario minimo legale con riferimento ai soli “settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresen- tativi sul piano nazionale”, è stata puntualmente disattesa. Sempre nel sopraddetto documento padronale, poco più avanti possiamo leggere :

".... È evidente infatti che, nel nostro Paese, la mancata adozione di un salario minimo legale è da mettere in correlazione proprio alla diffusione della contrattazione collettiva (cioè dai rapporti di forza esistenti fra padronato e movimento operaio) che, storicamente, si è fatta carico di individuare i livelli salariali minimi per ciascuna categoria di lavoratori. ".(2) Quindi un salario minimo orario legale non solo non rappresenterebbe un effettivo argine alla diffusione di salari al di sotto della soglia eventualmente stabilita, ma là dove questa scelta diventasse reale, il primo aspetto a essere messo in discussione ed a franare sarebbe proprio la contrattazione nazionale. Continuando infatti a leggere, sempre nel documento Confindustriale troviamo:

"...E’ del tutto evidente come una scelta di tal genere ben potrebbe ingenerare nelle imprese la tentazione di “sciogliersi” dal complesso di obblighi che derivano dal rispetto dei contratti collettivi, a favore di una regolamentazione unilaterale del rapporto di lavoro che troverebbe, però, nel rispetto del salario minimo, la sua tutela fondamentale. Si tratta del cosiddetto fenomeno della “fuga” dal contratto collettivo che si sta registrando, già da tempo, in vari paesi europei che hanno adottato il sistema del salario minimo legale, pur in presenza di una consolidata tradizione di contrattazione collettiva. ".(3)

Rapporti di forza

Fra le ulteriori criticità individuate dal fronte padronale vi è anche la constatazione che la soglia minima di 9 euro lordi, quindi al di sopra delle attuali soglie minime dei contratti nazionali, determinerebbe una minore disponibilità per trattamenti retributivi aggiuntivi, quali premi di produzione e welfare aziendale, quote di salario accessorio che colpevolmente le organizzazioni sindacali hanno favorito, contribuendo alla maggiore divisione e frantumazione del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici. Per quanto riguarda le organizzazioni sindacali, quelle così dette maggiormente rappresentative, cioè CGIL CISL e UIL, evidenziano come la sola definizione di un salario minimo legale orario, se non dovesse riconoscere valore legale ai minimi salariali predisposti dai Ccnl, ben difficilmente riuscirebbe a garantire quel trattamento economico complessivo che la contrattazione collettiva ha ormai sancito in ogni comparto lavorativo, così come le tutele normative da essa garantite. Infatti, le attuali retribuzioni dei lavoratori italiani non sono costituite meramente dai minimi orari ma sono composte da più voci retributive (13^ e in alcuni casi 14^ mensilità, dinamiche retributive dei livelli di inquadramento, maggiorazioni per prestazioni orarie o di altro tipo, ferie, indennità, EDR ed altri voci e premi retributivi settoriali di carattere nazionale) e da ulteriori tutele che risultano essere sostanziali e fondamentali per un dignitoso rapporto di lavoro (riduzioni di orario contrattuali, tutele per malattia, maternità, infortuni superiori a quelle di legge, erogazione di un welfare previdenziale e sanitario diffuso e significativo).

In sintesi, l’effettiva retribuzione oraria di un lavoratore coperto da Ccnl è ben superiore al semplice minimo tabellare. C'è da dire inoltre che il fenomeno sociale dei "working poor" è ampliato e reso di fatto strutturale, per la presenza di masse giovanili che non riescono ad entrare nel mondo del lavoro, le quali, insieme alla forza lavoro immigrata, formano il classico esercito industriale di riserva con l'altrettanta classica funzione di abbassare il valore della forza lavoro, cioè i salari.

Nei settori lavorativi con meno valore aggiunto, là dove la forza lavoro viva è preminente rispetto alle tecnologie, (lavoro domestico, agricolo, grande distribuzione, settori dei servizi all'impresa), le paghe orarie sono ben al di sotto del pur costo minimo orario calcolato nelle imprese industriali, che è di 7,5 € lordi.

Quindi alla pur condivisibile affermazione che un salario minimo legale non conterrebbe salario differito presente invece nei minimi contrattuali è l'assenza di una reale contrattazione generalizzata e nazionale sul salario che contribuisce alla frantumazione del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici, creando la povertà diffusa conseguente a salari al di sotto della stessa necessità di riproduzione della forza lavoro.

Le responsabilità di CGIL CISL e UIL

Le strutture sindacali, CGIL in testa, pur consapevoli della enorme perdita di potere di acquisto dei salari e delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, sono corresponsabili nel non aver impostato una seria battaglia salariale, nonostante che la stessa fondazione Di Vittorio ci informi che solo dal 2010 al 2018 le retribuzioni medie lorde annue hanno perso oltre 1000 euro: l'equivalente di una mensilità. Ad una tale battaglia di carattere salariale, sempre più urgente e necessaria, dovrebbe collegarsi la richiesta di una forte riduzione degli orari di lavoro a parità di salario, proprio per includere nel lavoro a tempo indeterminato la massa giovanile di precari, i disoccupati e la forza lavoro immigrata. E' la mancanza di una tale strategia sindacale che permette al padronato un fortissimo ricatto nei confronti delle masse lavoratrici, le quali oltre alla scarsa retribuzione sommano una giurisdizione sul lavoro, a seguito dell''abolizione dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, totalmente a loro sfavore. Tornando alla proposta del Movimento 5 Stelle in realtà l'articolato proposto afferma che nessun lavoratore può guadagnare meno di quanto previsto dai CCNL più rappresentativi e, comunque, il salario stabilito dal contratto collettivo non potrà mai scendere sotto i 9 euro lordi all’ora.

In questo modo verrebbe rafforzata la contrattazione collettiva, contrastando i contratti pirata (quelli sottoscritti da organizzazioni sindacali gialle e scarsamente rappresentative) e il dumping salariale, quindi la concorrenza sleale, e si creerebbe di fatto un sostanzioso avanzamento salariale.

Si stima infatti che l'adeguamento salariale costerebbe 5,5 miliardi di euro. Calcolando una sorta di effetto trascinamento, e prevedendo un aumento del 5% per le retribuzioni già sopra le 9 euro l'ora si arriverebbe a 12 miliardi di incremento del costo del lavoro. Nel medesimo disegno di legge del Movimento 5 stelle, riguardo alla rappresentatività si fa esplicito riferimento all'accordo del Testo Unico del 2014 sulla rappresentanza siglato fra Confindustria e CGIL CISL e UIL, tant'è che da Massimo Bonini, Segretario CGIL di Milano, pur confermando il giudizio negativo sulla proposta, di fatto arriva ad una esplicita apertura di credito quando afferma:

" il salario minimo non è sufficiente anche se potrebbe risolvere alcuni problemi relativi alle categorie meno protette" mettendo in evidenza che "non c'è solo un tema di salario ma di tutele (i CCNL regolamentano ferie,maternità, riposi,orario do lavoro) e di rappresentanza." (4)

In questa fase di acuta debolezza della nostra classe e delle sue organizzazioni di resistenza, i motivi di contrarietà da parte padronale al disegno di legge del M5S sono espliciti, miranti come sono ad avere le mani libere su quote di salario accessorio. Simmetricamente anche i motivi di contrarietà di CGIL CISL UIL, a cui spetta la responsabilità di non aver contrastato scelte padronali fortemente divisive della classe, finiscono per assumere come obiettivo prioritario il loro mero riconoscimento istituzionale nella contrattazione e non la difesa delle condizioni di vita delle masse lavoratrici. Nei confronti della proposta del Movimento 5 Stelle il nostro giudizio necessita di argomentazioni quali la natura stessa di questo movimento, il blocco sociale di riferimento, il suo essere forza di un governo di coalizione con la Lega di Salvini.

Questo movimento, autodefi- nitosi né di destra né di sinistra e quindi interclassista, con un progetto di società che non è dato sapere, inconsapevole che soluzioni più o meno avanzate nella società dipendono dai rapporti di forza fra le classi, non può certo essere rappresentativo delle masse lavoratrici. Anzi, la sua natura sociale costituita da da mezze classi, in assenza di un forte movimento operaio organizzato lo porta ad una generica richiesta di onestà e di maggiori diritti che nello scontro reale delle classi rimane pura propaganda. I casi di corruzione e di concussione con uomini anche vicini al Movimento sono espliciti ed innumerevoli. La presunta capacità di espellere velocemente "le mele marce" non risolve certo le cause strutturali di questi accadimenti, i quali restano per il M5S un mistero che non contribuisce a mettere in discussione la struttura economica portante della società cioè il capitalismo, questa si la vera causa strutturale della disonestà e dell'accaparramento individuale. Inoltre la loro attenzione alla piccola e media industria, blocco sociale di riferimento, la loro incapacità di riconoscere forme sociali che rappresentano particolari interessi, quali le strutture sindacali, la loro presunta autosufficienza, porta questo Movimento sulle posizioni classiche dei moderati e dei conservatori . Pasquale Tridico, Presidente dell'INPS espressione del Movimento 5 Stelle e forte sostenitore della proposta del salario minimo orario in armonia con i dati fin qui espressi afferma:

"L'istituto stima che il costo per le imprese sarebbe intorno ai 10 miliardi. Questo potrebbe essere bilanciato da una riduzione del cuneo fiscale che possa interessare le imprese che subiscono un aumento del costo". (5)

Come si vede la proposta di un possibile avanzamento salariale per le masse lavoratrici si scontra subito con la necessita di tutelare la piccola e media industria e il padronato tutto, usando per di più la leva fiscale, quindi generale, senza minimamente intaccare e ridurre i profitti aziendali e industriali, realiz- zando un’allarmante allinea- mento con certe posizioni sinda- cali che aleggiano anche nella CGIL. Il problema non è quindi quello di fissare un livello minimo uguale per tutti, ma di estendere la contrattazione a chi ne è escluso con l’obiettivo di un salario adeguato per vivere dignitosamente e non adeguato a garantire profitto e competitività. In assenza di una forte ripresa organizzativa e politica del movimento operaio, delle sue organizzazioni di resistenza e della sua autonomia politica da qualsiasi compagine governativa, tale impostazione della questione salariale è destinata a fallire sull'altare della presunta solidarietà nazionale in una ulteriore concezione della concertazione. Contro l'avanza- mento di disvalori collettivi quali xenofobia, razzismo, contro la diffusione della rabbia sociale e l'ulteriore frantumazione del tessuto sociale e civile, la necessità di ritrovare la direzione di una pratica solidaristica presuppone la ripresa delle lotte economiche e politiche del movimento operaio e la sua ritrovata autonomia.

Per questi obiettivi lavoriamo come compagni e compagne militanti della lotta di classe nella prospettiva del comunismo libertario.


Note:

  1. Documento presentato a cura di Piarengelo Albini Direttore Area lavoro, Welfare e Capitale Umano di Confindustria in occasione Audizione Parlamentare 11° Commissione Lavoro pubblico e privato, Previdenza Sociale Senato della Repubblica 12 Marzo 20190

  2. Idem

  3. Idem

  4. Festival del Lavoro Milano 20/21 Giugno 2019 www.pmi.it/economia

  5. Idem